Underhill deglutì, dominando con uno sforzo l'impulso a esplodere in un'oscenità, e cercò poi di approfittare dell'insolita tranquillità lavorando ai suoi registri. Ma gli affari dell'agenzia, che per anni avevano marciato precariamente, oggi si presentavano del tutto disastrosi. Underhill si affrettò a lasciare i suoi registri, tutto speranzoso, quando finalmente entrò una cliente.

Ma il donnone che entrò non voleva un nuovo androide. Voleva al contrario il rimborso per quello che aveva acquistato una settimana prima. Ammise che esso poteva davvero svolgere tutti i compiti promessi dall'agenzia... ma adesso aveva visto un umanoide.

Quel pomeriggio il telefono silenzioso squillò di nuovo. Il direttore della banca voleva sapere se lui poteva passare da loro per discutere dei suoi prestiti. Underhill passò, e il direttore lo accolse con malaugurante affabilità.

«Come vanno gli affari?» tuonò il banchiere, troppo cordiale.

«Lo scorso mese eravamo nella media», disse con voce ferma Underhill. «Adesso sto giusto per ricevere una nuova partita, e ho bisogno di un altro piccolo prestito...»

Gli occhi del direttore si fecero d'un tratto gelidi e la sua voce s'inaridì. «Credo che lei abbia un nuovo concorrente in città», disse, in tono deciso. «Questi umanoidi. Una compagnia molto solida, signor Underhill. Straordinariamente solida! Hanno presentato una dichiarazione d'intenti, depositando una somma consistente, per far fronte ai loro affari locali. Una somma senz'altro in eccesso!»

Il banchiere abbassò la voce, con un rincrescimento tutto professionale.

«In queste circostanze, signor Underhill, temo che la banca non possa più finanziare la sua agenzia. Dobbiamo chiederle di far fronte in solido ai suoi obblighi, via via che arriveranno le scadenze». Vedendo la disperazione manifestarsi con un profondo pallore sul volto di Underhill, il direttore aggiunse in tono glaciale: «L'abbiamo già aiutata troppo a lungo, signor Underhill. Se non potrà pagare, la banca dovrà iniziare la procedura fallimentare».

La nuova partita di androidi gli fu consegnata quel pomeriggio sul tardi. Due minuscoli umanoidi li scaricarono dal camion... poiché risultò che anche la compagnia dei trasporti era stata ceduta dai suoi proprietari all'Istituto Umanoidi.

Gli umanoidi ammucchiarono con grande efficienza le casse. Gli porsero, con la massima cortesia, la ricevuta da firmare. Underhill non aveva più molte speranze di riuscire a vendere un solo androide, ma aveva ordinato quella partita e l'aveva accettata. Rabbrividì e, provando lo spasimo d'un topo preso in trappola, scribacchiò il nome sulla ricevuta. Le cose nere e lucide lo ringraziarono e si allontanarono guidando il camion.

Underhill salì in macchina e si diresse verso casa, ribollendo di rabbia. Poi si ritrovò nel mezzo di una strada piena di traffico, intento ad attraversare un incrocio. Sentì il fischietto stridulo d'un poliziotto, e stancamente fermò accanto al marciapiede. Attese che arrivasse il poliziotto iracondo, ma fu un piccolo uomo meccanico nero ad affiancare la sua macchina.

«Al suo servizio, signor Underhill», ronfò l'umanoide. «Deve rispettare il semaforo rosso, signore, altrimenti metterà a repentaglio delle vite umane».

«Uh?» Lo fissò corrucciato. «Pensavo che fosse un poliziotto».

«Stiamo dando una mano al dipartimento di polizia, temporaneamente», spiegò l'umanoide. «Ma la guida d'un automezzo è davvero troppo pericolosa per gli esseri umani, stando alla Direttiva Primaria. Non appena il nostro servizio sarà stato completato, ogni macchina avrà un conducente umanoide. Non appena ogni essere umano sarà sotto completo controllo, non ci sarà più bisogno delle forze di polizia».

Underhill lo folgorò con un'occhiata.

«Bene!» esclamò con un mezzo ruggito. «Sono passato col rosso. E allora?»

«La nostra funzione non è quella di punire gli uomini, ma soltanto quella di servirli per la loro felicità e sicurezza», spiegò quell'implacabile voce soave. «Noi le chiediamo soltanto di non guidare pericolasamente, durante questa temporanea emergenza, mentre il nostro servizio non è ancora completo».

La rabbia esplose dentro di lui.

«Siete troppo perfetti!» sibilò, amaro. «Suppongo che non ci sia niente, fra tutto ciò che gli uomini possono fare, che voi non possiate fare meglio».

«Naturalmente, noi siamo superiori», tubò con serenità l'umanoide. «Perché le nostre unità sono di metallo e plastica, mentre il vostro corpo è composto soprattutto d'acqua. Perché l'energia che viene trasmessa a noi viene dalla fissione atomica, mentre la vostra è prodotta dall'ossidazione chimica. Perché i nostri sensi sono più acuti della vista o dell'udito umano. E soprattutto perché tutte le nostre unità mobili sono collegate a un unico grande cervello, il quale conosce tutto quello che accade su molti pianeti, e non muore mai, non dorme né dimentica».

Underhill restò seduto, dentro la sua auto, stordito, immobile. «Tuttavia, lei non deve temere il nostro potere», lo sollecitò con vivacità l'umanoide. «Perché noi non possiamo far del male a nessun essere umano, salvo per impedire che ur male maggiore venga perpetrato contro un altro essere umano. Noi esistiamo soltanto per adempire alla Direttiva Primaria».

Underhill proseguì, pieno di malumore, fino a casa. Rifletté tra sé, cupo, che i piccoli uomini neri meccanici erano gli angeli custodi del dio supremo nato dalla macchina, onnipotente e onnisciente. La Direttiva Primaria era il nuovo comandamento. La maledisse amaramente, e poi si chiese se avrebbe potuto esistere anche un altro Lucifero.

Lasciò la macchina nel garage e si avviò verso la porta della cucina.

«Signor Underhill». La voce profonda e stanca del nuovo inquilino di Aurora lo salutò dall'ingresso dell'appartamento sopra il garage. «Solo un momento, per favore». Il vecchio vagabondo scarno discese, rigido, la scala esterna, e Underhill tornò indietro per incontrarlo.

«Ecco i soldi per l'affitto», gli disse il vecchio, «e i dieci dollari che sua moglie mi ha anticipato per la medicina».

«Grazie, signor Sledge». Nell'accettare il denaro, Underhill colse il fardello d'una nuova disperazione gravare sulle spalle del vecchio barbone interstellare, e l'ombra d'un nuovo terrore sulla sua faccia tutta pelle e ossa. Perplesso, gli chiese: «Non sono arrivate le sue percentuali?»

Il vecchio scosse la testa carruffata.

«Gli umanoidi hanno già fatto cessare ogni attività commerciale nella capitale», dichiarò. «I legali che avevo assunto stanno chiudendo il loro studio, e mi hanno restituito il denaro che avevo lasciato loro in deposito. È tutto quello che mi rimane per portare a termine il mio lavoro».

Underhill riandò, per qualche secondo, al colloquio che aveva avuto col direttore della banca. Non c'era dubbio che lui fosse uno sciocco sentimentale, almeno quanto Aurora. E rimise i soldi nella mano nodosa e tremante del vecchio.

«Li tenga», lo sollecitò, «per il suo lavoro».

«Grazie, signor UnderhiiI». Quella voce burbera si spezzò e gli occhi afflitti scintillarono. «Ne ho bisogno... tanto bisogno».

Underhill proseguì fino alla casa. La porta della cucina gli venne aperta in silenzio. Una creatura nuda e scura gli si avvicinò per prendergli, con gesto grazioso, il cappello.

Ma Underhill se lo tenne stretto, caparbiamente.

«Cosa fai qui?» sbottò, amaro.

«Siamo venuti per offrire alla sua famiglia una prova gratuita».

Underhill indicò la porta, tenendola spalancata:

«Fuori di qui!»

Il piccolo uomo meccanico nero, dallo sguardo cieco, restò immobile.

«La signora Underhill ha accettato il nostro servizio dimostrativo», protestò la sua voce soave. «Adesso non possiamo più andarcene a meno che non sia la signora a chiedercelo personalmente».

Trovò sua moglie in camera da letto. La frustazione che aveva accumulato esplose tutta insieme, quando spalancò di colpo la porta.

«Cosa fa quell'uomo meccanico...»

Ma l'energia abbandonò la sua voce e Aurora non si accorse neppure della sua rabbia. Indossava il suo negligé più trasparente e non gli era mai apparsa tanto adorabile dal giorno in cui si erano sposati. I suoi capelli rossi erano raccolti in un'elaborata corona fiammeggiante.

«Tesoro, non è meraviglioso?» Gli venne incontro raggiante. «È venuto stamattina, e sa fare tutto. Ha pulito la casa, ha preparato il pranzo e ha dato alla piccola Gay la sua lezione di musica. Questo pomeriggio mi ha acconciato i capelli, e adesso sta cucinando la cena. Ti piace la mia nuova pettinatura, tesoro?»

Sì, la nuova pettinatura gli piaceva moltissimo. La baciò e cercò di soffocare la sua indignazione e il suo spavento.

La cena fu la più elaborata e squisita che Underhill avesse mai assaporato, e il piccolo uomo meccanico nero la servì con grande maestria. Aurora continuava a dare in esclamazioni davanti a tutte quelle nuove pietanze, ma Underhill riuscì appena ad assaggiarle, poiché aveva la netta impressione che tutti quei manicaretti fossero soltanto un'esca che portava a una trappola mostruosa.

Cercò ancora di convincere Aurora a mandar via l'umanoide, ma dopo una cena come quella ogni tentativo in merito non poteva che esser futile. Al primo luccichio delle sue lagrime, Underhill capitolò, e l'umanoide rimase. Provvedeva alla casa, puliva il cortile e sorvegliava i bambini, e faceva la manicure ad Aurora. E cominciò a ricostruire l'edificio.

Underhill era preoccupato per il conto, ma l'umanoide insisté a dire che tutto faceva parte della dimostrazione gratuita di prova. Non appena avesse ceduto la sua proprietà, il servizio sarebbe divenuto completo. Underhill si rifiutò di firmare, ma altri uomini meccanici neri arrivarono con camion carichi di rifornimenti e di materiali, e rimasero per dare una mano alle operazioni di ricostruzione.

Un mattino Underhill scoprì che il tetto della piccola casa era stato silenziosamente sollevato mentre dormiva, e un intero secondo piano era stato aggiustato sotto di esso. I nuovi muri erano costituiti da qualche strana sostanza liscia che si autoilluminava. Le nuove finestre erano immensi pannelli assolutamente perfetti che potevano esser resi trasparenti o opachi o luminosi. Le nuove porte erano sezioni silenzionse e scorrevoli che si aprivano grazie a relé rodomagnetici.

«Voglio delle maniglie alle porte», protestò Underhill. «Le voglio per poter entrare in bagno senza doverti chiamare perché mi apri la porta».

«Ma è inutile che un essere umano apra le porte», obiettò con la sua dolce voce il piccolo uomo meccanico nero. «Noi esistiamo per assolvere alla Direttiva Primaria e il nostro servizio comprende qualunque compito. Saremo in grado di fornire un'unità che si prenda cura di ogni membro della sua famiglia, non appena la sua proprietà ci sarà stata ceduta».

Cocciuto, Underhill si rifiutò di sottoscrivere la cessione.

Andava in ufficio ogni giorno, all'inizio tentando di far funzionare l'agenzia e poi di salvar qualcosa dalle rovine. Nessuno voleva più androidi, neppure a un prezzo rovinoso. Disperato, Underhill spese gli ultimi contanti che gli restavano per mettere in vendita una linea di chincaglierie e di giocattoli, ma anche questi risultarono impossibili a vendersi — gli umanoidi stavano già producendo giocattoli che davano via gratis.

Cercò di dare in affitto i suoi locali, ma le imprese umane avevano cessato di funzionare. La maggior parte della proprietà delle aziende in città erano già state cedute agli umanoidi, e questi erano occupati a radere al suolo i vecchi edifici e trasformare i terreni in parchi pubblici — le loro fabbriche e i loro depositi erano in gran parte sottoterra, dove non avrebbero guastato il paesaggio.

Tornò alla banca per tentare un'ultima volta di ottenere un rinvio nella scadenza dei pagamenti, e trovò i piccoli uomini meccanici neri in piedi dietro gli sportelli o seduti alle scrivanie. Cortese e insinuante come un direttore umano, un umanoide l'informò che la banca aveva presentato richiesta di fallimento non fraudolento per liquidare la proprietà della sua azienda.

Il banchiere meccanico aggiunse che la liquidazione sarebbe stata facilitata se lui avesse optato per la cessione volontaria. Tenacemente, Underhill rifiutò di farlo. Quell'atto era diventato per lui un simbolo. Sarebbe stata la sottomissione finale a quel nuovo dio oscuro, e Underhill tenne orgogliosamente alta la testa, sfidando ogni martellamento.

 

L'azione legale si sviluppò molto in fretta, tutti i giudici e i procuratori avevano già degli assistenti umanoidi, e ci vollero soltanto pochi giorni perché una banda di piccoli uomini neri meccanici arrivasse all'agenzia con gli ordini di sfratto e di distruzione di ogni altro meccanismo. Underhill osservò con tristezza la sua merce invenduta che veniva portata via, come ferrovecchio, e un bulldozer guidato da un umanoide dallo sguardo cieco che cominciava ad abbattere le mura dell'edificio.

Tornò a casa in macchina quel pomeriggio sul tardi, teso in volto e disperato. Con sorprendente generosità, per disposizioni del tribunale gli erano state lasciate la casa dove abitava e l'automobile, ma non provava nessuna gratitudine. L'assoluta sollecitudine di quelle perfette macchine nere era diventata un tormento al di là di ogni sopportazione.

Lasciò l'automobile in garage e si diresse verso la casa ricostruita. Dietro una delle nuove, grandi finestre, scorse una cosa liscia e nuda che si muoveva rapida, e si sentì afferrare da un tremito convulso di paura. No, non voleva far ritorno nel dominio di quell'impareggiabile servitore, il quale non voleva neppure che si sbarbasse da solo, o che aprisse da solo una porta.

D'impulso salì la scala esterna e bussò alla porta dell'appartamentino sopra il garage. La voce bassa e profonda dell'inquilino di Aurora gli disse di entrare, e trovò il vecchio vagabondo seduto su uno sgabello, chino sopra la sua complicata apparecchiatura sistemata sul tavolo del cucinino.

Con suo grande sollievo, scoprì che il piccolo appartamento non era stato cambiato. In casa, invece, le lucide pareti delle sue nuove stanze erano fatte di qualcosa che irradiava, nella notte, un pallido fuoco dorato fino a quando l'umanoide non decideva di farlo cessare, e il nuovo pavimento era caldo e cedevole, al punto da parer quasi vivo; ma queste piccole stanze avevano lo stesso intonaco crepato e chiazzato di macchie d'umido, le stesse luci fluorescenti, gli stessi tappetini logori sul pavimento scheggiato.

«Com'è riuscito a tenerli fuori?» chiese con voce stanca e malinconica. «Voglio dire, quegli uomini meccanici?»

Il vecchio smunto chino sul tavolo si alzò rigido per spostare un paio di pinze e qualche altro oggetto metallico da una sedia traballante, e gli fece gentilmente cenno di prender posto.

«Ho una certa immunità», gli spiegò Sledge con voce grave. «Non possono entrare nel posto dove abito, a meno che non sia io a chiederglielo. Questo è un emendamento della Direttiva Primaria. Non possono né aiutarmi né ostacolarmi, a meno che non sia io a chiederglielo... e non lo farò».

Stando attento all'incerto equilibrio della sedia, Underhill rimase seduto per un momento fissando il vuoto. La voce rauca e tesa del vecchio era strana quanto le sue parole. Era pallido, il suo colorito era d'un grigio sconvolgente, le sue guance e le sue cavità orbitali apparivano ancora di più scavate.

«Si è sentito male, signor Sledge»

«Non peggio del solito. Soltanto, molto occupato». Con uno stentato sorriso indicò con un cenno del capo il pavimento. Underhill abbassò lo sguardo e vide un vassoio con del pane ormai secco e un piatto coperto ormai freddo. «Avevo intenzione di mangiare più tardi», borbottò in tono di scusa. «Sua moglie è stata molto gentile a portarmi del cibo, ma temo di essermi concentrato troppo nel mio lavoro».

Indicò il tavolo con un gesto del suo braccio scarno. Là sopra il piccolo congegno iniziale era aumentato di dimensioni. Piccoli pezzi lavorati a macchina del bianco, prezioso metallo e di plastica, erano stati montati con sbarre saldate a regola d'arte, fino a formare qualcosa che ormai tradiva un'intenzione e uno scopo.

Un lungo ago di palladio era sospeso a perni di pietre dure, fornito, come un telescopio, di cerchi minutamente graduati e scale a nonio, e mosso da un piccolo motore. Un piccolo specchio concavo, anch'esso di palladio, posto alla base, era posto di fronte a uno specchio uguale montato su qualcosa non molto diverso da una piccola dinamo. Grosse sbarre d'argento collegavano il tutto a una scatola di plastica con quadranti e manopole, e anche a una sfera di piombo del diametro di trenta centimetri circa.

L'atteggiamento chiuso e preoccupato del vecchio non incoraggiava certo le domande, ma Underhill, ricordando la lucida forma nera dietro la nuova finestra della sua casa, provava una curiosa riluttanza ad abbandonare quello squallido paradiso per tornare dagli umanoidi.

«Che lavoro sta facendo?» azzardò.

Il vecchio Sledge gli lanciò un occhiata acuta con gli occhi scuri e febbricitanti, e alla fine rispose: «È il mio ultimo progetto di ricerca. Sto cercando di misurare la costante dei quanta rodomagnetici».

La sua voce, pur rauca e affaticata, aveva una cupa decisione, come per respingere ulteriori domande e lo stesso Underhill. Ma Underhill era ossessionato dal terrore dello schiavo nero e scintillante che era diventato il padrone della sua casa, e rifiutò d'esser congedato a quel modo.

«Ma cos'è questa faccenda della sua immunità?»

Il vecchio restò seduto, curvo e smunto, sull'alto sgabello, fissando di malumore il lungo ago luccicante e la sfera di piombo, e non rispose.

«Quegli uomini meccanici!» sbottò ancora Underhill, con nervosismo crescente. «Hanno distrutto la mia azienda e hanno occupato la mia casa». Scrutò il volto scuro e rugoso del vecchio. «Mi dica... lei deve saperne di più... non esiste un sistema per sbarazzarci di loro?»

Passò mezzo minuto, poi gli occhi meditabondi del vecchio lasciarono la sfera di piombo. La testa stanca e arruffata annuì lentamente.

«È quello che sto cercando di fare».

«Posso aiutarla?» Underhill tremò, colto da un'improvvisa, avida speranza. «Farò qualunque cosa».

«Forse può farlo». Quegli occhi infossati lo scrutarono pensierosi, in essi ardeva una strana febbre. «Sempre che lei sia in grado di fare un lavoro del genere».

«Ho studiato da ingegnere», gli ricordò Underhill, «e ho un mio piccolo laboratorio giù nel seminterrato. Quello è un modello che ho fatto con le mie mani». Indicò un piccolo scafo sopra il caminetto del minuscolo soggiorno. «Farò tutto quello che posso».

Tuttavia, già mentre pronunciava quelle parole, la scintilla di speranza annegava in un'improvvisa ondata di dubbio. Perché mai doveva dar credito a quel vecchio briccone, quando conosceva fin troppo bene quale fosse il gusto di Aurora nello scegliersi gli inquilini? Avrebbe dovuto tener sempre presente il gioco che era solito fare, e ricordarsi di tenere il conto delle bugie. Si rizzò dalla sedia sgangherata, fissando cinicamente il vecchio vagabondo cencioso e il suo fantastico giocattolo.

«Ma a cosa mai può servire?» La sua voce suonò improvvisamente aspra. «Lei mi ha ridato slancio... farei davvero qualcosa per fermarli. Ma cosa le fa pensare di poter fare qualcosa?»

Il vecchio scarno lo fissò pensieroso.

«Dovrei essere in grado di fermarli», disse Sledge a bassa voce. «Perché, vede, sono io lo sciagurato individuo che li ha creati. Nelle mie intenzioni, dovevano servire e obbedire, e proteggere gli uomini dal male. Sì, la Direttiva Primaria è stata una mia idea. Ma non m'immaginavo certo a che cosa avrebbe condotto».

Il crepuscolo cominciò a insinuarsi lentamente nella piccola squallida stanza. L'oscurità si raccolse negli angoli che da tempo non vedevano la scopa, e si addensò sul pavimento. I congegni simili a giocattoli sul tavolo del cucinino un po' per volta acquistarono contorni vaghi e strani, fino a quando l'ultima luce non si attardò con un ultimo sprazzo sul bianco ago di palladio.

Fuori, la città pareva stranamente tranquilla. Proprio sul lato opposto della strada gli umanoidi stavano costruendo un nuovo edificio, molto silenziosi. Non parlavano mai tra loro, poiché ognuno sapeva ad ogni istante tutto ciò che gli altri facevano. Gli strani materiali che usavano si congiungevano senza nessun rumore di martello o di sega. Piccole cose cieche che si muovevano sicure nella crescente oscurità, parevano senza suono e senza sostanza come le ombre.

Seduto sull'alto sgabello, curvo, stanco, vecchio, Sledge gli raccontò la sua storia. Underhill, mentre l'ascoltava, tornò a sedersi, facendo attenzione alla sedia rotta. Fissò le mani di Sledge, nodose e coriacee, un tempo potenti ma adesso avvizzite e tremanti, che si agitavano nel buio.

«Farà meglio a tenere tutto questo per sé. Le dirò come è cominciata, cosicché possa capire quello che dobbiamo fare. Ma sarà meglio che non lo racconti fuori da questa stanza... poiché gli umanoidi hanno modi molto efficaci di sradicare i ricordi infelici, oppure ogni idea e intenzione che minacciano la loro capacità di assolvere alla Direttiva Primaria».

«Già... sono molto efficaci», fu l'amaro commento di Underhill.

«È proprio questo il guaio», disse il vecchio. «Ho cercato di costruire una macchina perfetta, e ho avuto perfino troppo successo. Ecco come è accaduto».

Smunto e disfatto, seduto in un angolo, tutto curvo e oppresso da una crescente stanchezza nell'oscurità sempre più fitta, il vecchio gli raccontò la sua storia.

«Sessant'anni fa, nell'arido continente meridionale di Wing IV, ero insegnante di teoria atomica in una piccola università tecnologica. Molto giovane, un idealista. Piuttosto ignorante, temo, dei fatti della vita, della politica e della guerra... di quasi tutto, temo, salvo che di teoria atomica».

Sul suo volto velato dall'imbrunire si disegnò un triste e fugace sorriso.

«Suppongo di aver avuto troppa fede nei fatti, e troppo poca negli uomini. Diffidavo delle emozioni, poiché non avevo tempo per nient'altro se non la scienza. Ricordo di essermi lasciato trascinare da un'autentica mania per la semantica generale. Volevo applicare i metodi scientifici ad ogni situazione, e ridurre tutte le nostre esperienze di vita a formule. Temo di aver mostrato troppa impazienza nei confronti dell'ignoranza e degli errori umani; ero convinto che la scienza, da sola, fosse sufficiente a creare un mondo perfetto».

Restò seduto un attimo in silenzio, fissando le cose nere e silenziose che scivolano via, rapide ed incessanti, intorno al nuovo palazzo che stava crescendo con la rapidità del signo sul lato opposto della strada.

«C'era una ragazza». Le sue ampie spalle stanche diedero in una lieve, triste scrollata. «Se le cose fossero state un po' diverse, avremmo potuto sposarci, e passare la nostra vita in quella piccola e tranquilla città universitaria, e forse allevare un bambino o due. E gli umanoidi non sarebbero mai esistiti».

Sospirò nella fresca oscurità ormai quasi completa.

«Stavo completando la mia tesi sulla separazione degli isotopi del palladio... un progetto di poca importanza, ma dovevo accontentarmi. Lei era una biologa, ma aveva in mente di rinunciare al lavoro quando ci fossimo sposati. Sono convinto che saremmo stati due persone molto felici, del tutto comuni e assolutamente innocue.

«Ma poi ci fu la guerra... le guerre erano state troppo frequenti nel sistema di Wing, fin dalla prima colonizzazione dei pianeti. Sopravvissi a quella guerra in un laboratorio sotterraneo segreto, dove si progettavano e si costruivano uomini meccanici a scopi militari. Ma lei si offrì volontaria per lavorare a un progetto militare sulle biotossine. Vi fu un incidente. Alcune molecole d'un nuovo virus si dispersero nell'aria, e tutti quelli che lavoravano al progetto morirono in maniera assai dolorosa.

«A me restava la mia scienza, e un'amarezza che era difficile da dimenticare. Quando la guerra terminò, tornai alla piccola università per un progetto di ricerca finanziato dai militari. Il progetto concerneva la scienza pura — un'indagine teorica sulle forze leganti nucleari, a quell'epoca assai poco conosciute. Non si aspettavano che producessi un'arma vera e propria, ed io non riconobbi l'arma quando la scoprii.

«Si trattava soltanto di qualche paginetta di matematica piuttosto difficile. Una nuova teoria sulla struttura atomica, con una nuova espressione per una delle componenti delle forze leganti. Ma i tensori parevano un'innocua astrazione. Non vedevo nessun modo per provare la teoria o maneggiare la forza in questione. Le autorità militari permisero la pubblicazione del mio studio in una piccola rivista stampata dall'università.

L'anno successivo, feci una scoperta spaventosa — trovai il vero significato di quei tensori. Gli elementi della triade del rodio risultarono essere una chiave inaspettata per la manipolazione della forza postulata dalla teoria. Sfortunatamente il mio studio era stato ristampato anche all'estero, e molti altri uomini dovevano aver fatto la stessa, sfortunata scoperta, all'incirca nello stesso periodo.

«La guerra, che si concluse in meno di un anno, ebbe probabilmente inizio a causa di un incidente di laboratorio. Gli uomini non avevano previsto la capacità delle radiazioni rodomagnetiche sincronizzate di destabilizzare gli atomi pesanti. Un deposito saltò in aria, senza, alcun dubbio per pura disgrazia, e lo scoppio cancellò ogni traccia dell'incauto sperimentatore.

«Le forze di quella nazione sopravvissute alla catastrofe scatenarono una rappresaglia contro i presunti aggressori, e al confronto dei loro raggi rodomagnetici le bombe al plutonio di vecchio tipo apparirono innocui petardi. Uno di questi raggi, della potenza di pochi watt, poteva provocare la fissione degli elementi pesanti in lontani congegni elettronici, o delle monete d'argento che le persone avevano in tasca, delle otturazioni d'oro dei loro denti... perfino lo iodio della loro tiroide. Come se questo non bastasse, raggi non molto più potenti potevano far esplodere i minerali pesanti sotto i loro piedi.

«Ogni continente su Wing IV fu solcato da nuovi crepacci più vasti delle fosse oceaniche, e ricoperto da nuove montagne vulcaniche. L'atmosfera fu avvelenata dalla polvere e dai gas radioattivi, e la pioggia cadeva impastata di fango micidiale. La maggior parte delle forme di vita fu cancellata, perfino nei rifugi antiatomici.

«Fisicamente io ero rimasto del tutto illeso. Ancora una volta mi ero trovato rinchiuso in un sito sotterraneo, disegnando questa volta nuovi tipi di uomini meccanici per scopi militari, destinati ad essere alimentati e controllati per mezzo dei raggi rodomagnetici — poiché la guerra era diventata troppo fulminea e micidiale per essere combattuta da soldati umani. Il sito si trovava sotto un grande banco di rocce sedimentarie leggere, le quali non potevano esplodere sotto l'influenza dei raggi rodomagnetici, e le gallerie erano schermate contro le frequenze fissionanti.

«Tuttavia, mentalmente dovevo essere in pessime condizioni, del tutto o quasi fuori di senno. La mia scoperta aveva ridotto il pianeta in rovina, e quel fardello, eccessivo per qualsiasi uomo, aveva corroso la fede che ancora mi restava nella bontà e nell'integrità dell'umanità.

«Cercai di disfare ciò che avevo fatto. Soldati meccanici armati di armi rodomagnetiche avevano trasformato il pianeta in una completa desolazione. Adesso, cominciai a progettare nuovi uomini meccanici perché obbedissero sempre e dovunque a certi ordini inculcati in loro, cosicché non potessero mai venir usati per la guerra, i crimini o per arrecare un qualsivoglia danno all'umanità. Tecnicamente la cosa era parecchio difficile, e incontrai difficoltà ancora maggiori con alcuni uomini politici e avventurieri militari che volevano uomini meccanici privi d'ogni restrizione per farsi aiutare da essi nei loro sporchi intrighi... pur essendoci ormai ben poco per cui valesse la pena di combattere su Wing IV. Ma c'erano altri pianeti, ricchi, felici e ignari, pronti per il loro saccheggio.

«Alla fine, fui costretto a scomparire, per poter portare a termine i miei nuovi meccanici. Fuggii con un apparecchio rodomagnetico sperimentale, insieme ai migliori uomini meccanici da me costruiti, e riuscii a raggiungere un'isola vasta quanto un continente dove la fissione dei minerali in profondità aveva distrutto l'intera popolazione.

«Alla fine atterrammo su un tratto di terreno pianeggiante, circondato da nuove, immense montagne. Un luogo assai inospitale. Il suolo originario era sepolto sotto molti strati di lava consolidata e fango velenoso. Le nuove, cupe e vertiginose vette che s'innalzavano intorno a noi, erano incise da grandi fratture e ammantate da colate laviche più recenti. Le cime più alte erano già bianche per la neve, i coni vulcanici eruttavano ancora sinistre nubi di morte. Tutto qui aveva il colore del fuoco ed era pregno del furore degli elementi.

«Laggiù fui costretto a prendere inaudite precauzioni per proteggere la mia vita. Rimasi a bordo della nave fino a quando non fu terminata la costruzione del primo laboratorio schermato. Indossai scafandri e maschere respiratorie terribilmente sofisticati. Usai ogni risorsa medica per riparare i guasti causati nel mio organismo dalle radiazioni e dai fasci di particelle più "duri". Ma anche così mi sentivo disperatamente malato.

«Invece, in quell'ambiente mortale, gli uomini meccanici si trovavano a casa loro. Le radiazioni non facevano ad essi nessun male. E l'aspetto spaventosamente squallido del paesaggio non poteva deprimerli, poiché erano privi di emozioni. La mancanza completa di vita non aveva importanza, per loro, poiché non erano vivi. E laggiù, in quel luogo cosi alieno e ostile alla vita, nacquero gli umanoidi».

Curvo e gelido come un cadavere nell'oscurità ormai completa, il vecchio rimase silenzioso per un po'. I suoi occhi stralunati fissavano intensi le piccole figure che si muovevano, come ombre irrequiete, al di là del viale, intente a costruire in silenzio un nuovo e strano edificio, il quale riluceva debolmente nella notte.

«Io, per qualche motivo, mi sentivo a casa mia anche laggiù», proseguì, con voce decisa, il vecchio. «Avevo ormai perso ogni fiducia nella mia razza. Con me c'erano soltanto gli uomini meccanici, e finii per riporre in loro tutta la mia fede. Ero deciso a costruire uomini meccanici migliori, immuni dalle imperfezioni umane, capaci di salvare l'umanità da se stessa.

«Gli umanoidi divennero i figli prediletti della mia mente malata. Non c'è bisogno che descriva il mio travaglio. Vi furono errori, aborti, mostruosità d'ogni tipo. Vi furono dolore, angoscia, tormenti. Passarono mesi, prima che riuscissi a produrre il primo, perfetto umanoide.

«Poi fu necessario costruire la centrale — giacché tutti gli umanoidi singoli non dovevano essere altro che gli arti e gli organi sensori di un unico cervello meccanico. Fu questo che spalancò la strada verso la possibilità della vera perfezione. I vecchi uomini meccanici, con le loro singole centrali a relé e le loro deboli batterie, avevano dei limiti intrinsechi. Erano di necessità stupidi, impacciati e lenti.. Cosa ancora peggiore, mi parevano suscettibili d'ogni interferenza da parte dell'uomo.

«La Centrale si sviluppò bene al di sopra di queste imperfezioni. I suoi raggi fornivano ad ogni singola unità l'energia indispensabile, e in continuità, generata da grandi reattori a fissione. I raggi di controllo fornivano ad ogni singola unità una memoria illimitata e un'insuperabile intelligenza.

E meglio d'ogni altra cosa — così credevo allora — questi nuovi uomini meccanici e la loro centrale potevano esser protetti da ogni interferenza umana.

«L'intero sistema reattivo era concepito per autoproteggersi da ogni interferenza dovuta all'egoismo e al fanatismo umani. Era stato realizzato per assicurare agli uomini felicità e sicurezza, automaticamente. Lei conosce la Direttiva Primaria: Servire e Obbedire, e Proteggere l'Uomo dal Male.

«I vecchi uomini meccanici individuali che avevo portato con me mi aiutarono a costruire le parti ed io assemblai la prima sezione della Centrale con le mie stesse mani. Impiegai tre anni per farlo. Quando fu terminata, nacque il primo umanoide».

Sledge fissò Underhill con espressione imbronciata attraverso il buio.

«A me parve davvero vivo», riprese, con la voce sua profonda. «Vivo e più bello di qualsiasi altro essere umano, poiché era stato creato per preservare la vita. Malato e solo, nondimeno ero il padre orgoglioso d'una nuova creatura, perfetta, libera per sempre da ogni possibilità di scegliere il male.

«Gli umanoidi ubbidirono fedelmente alla Direttiva Primaria. Le prime unità ne costruirono delie altre, e approntarono le fabbriche sotterranee dalle quali sarebbero usciti, in massa, gli umanoidi negli anni futuri. Le nuove navi da essi realizzate riversavano minerali grezzi e sabbia nelle fornaci atomiche, sotto la squallida pianura, e i nuovi, perfetti umanoidi uscirono a passo di marcia dalla buia matrice meccanica.

«La nuova turba di umanoidi edificò una nuova torre per la Centrale, un altissimo pilastro di metallo bianco, che si ergeva splendido nel mezzo di quella desolazione deturpata dal fuoco. Livello dopo livello, aggiunsero sempre nuove sezioni al grande cervello-madre, fino a quando la sua capacità di comprendere e imparare non diventò praticamente infinita.

«Poi, uscirono dal sottosuolo per ricostruire il pianeta in rovina, e più tardi portarono su altri mondi il loro perfetto servizio. Ero molto soddisfatto di loro. Ero convinto di aver realizzato la fine della guerra e del crimine, della povertà e della disuguaglianza, degli errori umani e della gran massa di sofferenze che essi provocavano».

Il vecchio sospirò e si mosse pesantemente nel buio.

«Lei può vedere quanto mi sbagliavo».

Underhill distolse lo sguardo dalle cose nere in costante movimento, silenziose come ombre, che costruivano quel nuovo, scintillante palazzo là fuori, davanti alla sua finestra. In lui crebbe un piccolo dubbio, poiché era avvezzo a mettere in ridicolo tra sé storie assai meno straordinarie di questa, raccontate dagli inquilini di Aurora. Ma quel vecchio macilento aveva parlato con calma, quasi rassegnato; ed era pur vero che quei neri invasori non si erano intromessi nella vita privata di Sledge.

«Ma perché non li ha fermati?» gli chiese. «Perché non è intervenuto quando ancora poteva farlo?»

«Ero rimasto troppo a lungo dentro la Centrale». Sledge tornò a sospirare, rincresciuto. «Là dentro la mia opera era necessaria, fino a quando non fu tutto terminato. Progettai nuove centrali a fissione, e concepii perfino i modi per introdurre il servizio degli umanoidi con il minimo possibile di confusione e di opposizione».

Nel buio, Underhill fece una smorfia.

«Ho avuto modo di conoscere quei modi», commentò, agro. «Sì, sono molto efficaci».

«A quell'epoca provavo un'autentica venerazione per l'efficienza», confessò, in tono stanco, Sledge. «Fatti precisi, verità astratte, perfezione meccanica. Devo aver odiato la fragilità degli esseri umani, poiché la mia più grande soddisfazione era stata quella di affinare il più possibile la perfezione dei nuovi umanoidi. È una ben triste confessione, ma provai una specie di felicità, laggiù, in quella terra desolata e morta. In effetti, temo di essermi innamorato delle mie creazioni».

Nel buio i suoi occhi incassati avevano un luccichio febbricitante.

«Alla fine, un giorno, un uomo venuto fin laggiù per uccidermi mi riportò alla realtà».

Smunto e curvo, il vecchio si agitò nel buio ormai profondo. Underhill spostò il peso del proprio corpo, facendo sempre attenzione alla sedia traballante. Aspettò, e quella voce lenta e profonda proseguì, quasi disincarnata: «Non ho mai saputo con precisione chi fosse, e come fosse riuscito ad arrivare laggiù. Nessun uomo comune avrebbe potuto riuscirci, e per parecchio tempo ho rimpianto il fatto di non averlo potuto conoscer prima. Doveva essere stato un fisico eccezionale e un esperto scalatore. Immagino che fosse anche un bravo cacciatore. So che era intelligente, e tremendamente deciso.

«Sì, era venuto col preciso intento di uccidermi.

«In qualche modo aveva raggiunto la grande isola, senza farsi scoprire. L'isola era ancora disabitata dopo le distruzioni della guerra... gli umanoidi consentivano soltanto a me di avvicinarmi tanto alla Centrale. In qualche modo quell'uomo riuscì a oltrepassare i loro raggi-spia e le loro armi automatiche.

«Più tardi, trovammo abbandonato su un alto ghiacciaio l'aereo schermato di cui si era servito. Aveva compiuto a piedi il rimanente percorso, scendendo dalle montagne, attraversando scoscendimenti e burroni là dove non esisteva nessun sentiero. In qualche modo era riuscito anche a superare indenne i letti di lava che ardevano ancora del micidiale fuoco atomico.

«Celato da qualche tipo di schermo rodomagnetico — non mi fu mai permesso di esaminarlo — attraversò senza essere scoperto lo spazioporto che adesso copriva la maggior parte della grande pianura, penetrando nella nuova città sorta intorno alla torre della Centrale. Deve aver avuto molto più coraggio e decisione della maggior parte degli uomini, ma non ho mai saputo come l'abbia fatto.

«In qualche modo arrivò al mio studio nella torre. Urlò contro di me, io alzai lo sguardo e lo vidi, là sulla soglia. Era quasi nudo, graffiato e insanguinato dopo la traversata delle rocce aguzze delle montagne. Aveva una pistola nella mano scarnificata e rossa di sangue, ma la cosa che più mi colpì fu l'odio feroce che vidi ardere nei suoi occhi».

Curvo, sull'alto sgabello, nella piccola stanza buia, il vecchio rabbrividì.

«Non avevo mai visto un simile odio, incredibilmente mostruoso, neppure sul volto delle vittime della guerra. E non avevo mai udito un odio come quello che, con voce raschiante, mi vomitò addosso, con le poche parole che riuscì a urlare: "Sono venuto a ucciderla, Sledge, per fermare le sue creature meccaniche e liberare gli uomini".

«Si sbagliava, purtroppo. Era già troppo tardi perché la mia morte potesse fermare gli umanoidi, ma lui non poteva saperlo. Sollevò la pistola con entrambe le mani insanguinate e tremanti, e sparò.

«Il suo urlo di sfida mi aveva dato un secondo o poco più di preavviso. Mi lasciai cadere dietro la scrivania. E quel primo sparo rivelò la sua presenza agli umanoidi che per un motivo o per l'altro non si erano accorti di lui fino a quel momento. Questi gli si precipitarono addosso prima che facesse in tempo a sparare una seconda volta. Gli portarono via la pistola e gli strapparono di dosso una specie di rete di filo bianco e sottile che rivestiva il suo corpo... doveva trattarsi di parte del suo schermo.

«Fu il suo odio che mi riportò alla realtà. Avevo sempre dato per scontato che la maggior parte degli uomini, salvo pochi frustrati, avrebbero accolto con riconoscenza gli umanoidi. Trovai difficile capire il suo odio, ma adesso gli umanoidi mi rivelarono che per molti uomini era stato necessario un drastico trattamento a mezzo della chirurgia del cervello, delle droghe e dell'ipnosi, per renderli felici in base alla Direttiva Primaria. Quello non era il primo disperato tentativo di uccidermi che avevano bloccato.

«Avrei voluto interrogare lo straniero, ma gli umanoidi lo portarono in fretta in una sala operatoria. Quando alla fine mi permisero di vederlo, l'uomo mi rivolse un pallido sorriso ebete dal suo letto. Ricordava il suo nome; giunse perfino a riconoscermi... gli umanoidi avevano sviluppato una prodigiosa abilità in questo tipo di trattamenti. Ma non sapeva come avesse fatto a raggiungere il mio studio, e neppure ricordava più di aver tentato di uccidermi. Continuava a mormorare quanto gli piacessero gli umanoidi, poiché esistevano per render felici gli uomini. E lui era molto felice, adesso. Non appena fu in grado d'esser mosso senza pericolo, lo portarono allo spazioporto. Non lo vidi mai più.

«Cominciai allora a capire ciò che avevo fatto. Gli umanoidi mi avevano costruito uno yacht rodomagnetico col quale compivo lunghe crociere nello spazio, continuando a lavorare a bordo... mi piaceva quella quiete perfetta e la sensazione di essere l'unico essere umano nel raggio di centinaia di milioni di miglia. Adesso, mandai a chiamare quello yacht e iniziai una crociera intorno al pianeta, per sforzarmi di capire perché mai quell'uomo mi avesse odiato tanto».

Il vecchio indicò con un cenno del capo le vaghe forme frettolose sull'altro lato della strada, che continuavano instancabili a costruire quello strano, scintillante, palazzo nella silenziosa oscurità della notte.

«Può ben immaginare cosa scoprii», disse. «Amara futilità, imprigionata in un vacuo splendore. Gli umanoidi erano troppo efficienti con le loro attenzioni rivolte alla sicurezza e alla felicità degli uomini, e agli uomini non restava più niente da fare».

Abbassò per un attimo lo sguardo sulle sue grosse mani avvolte dalla tenebra... mani ancora capaci ma fin troppo segnate da un'intera vita di sforzi. Le strinse a pugno, combattive, ma stancamente le rilasciò quasi subito.

«Ho finito per trovare qualcosa di molto peggio della guerra e del crimine, del bisogno e della morte»

La sua voce bassa e vibrante aveva acquistato una nota amara, quasi feroce. «La totale inutilità dell'esistenza. Gli uomini sedevano con le mani in mano giacché per loro non c'era più nulla da fare. In effetti, erano prigionieri coccolati e viziati, chiusi a doppia mandata dentro una prigione superefficiente. Sì, magari qualcuno provava a giocare, ma non c'era niente per cui valesse la pena giocare. La maggior parte degli sport attivi erano stati dichiarati troppo pericolosi per gli uomini, secondo la Direttiva Primaria. La scienza era proibita poiché i laboratori potevano crear pericoli. Gli studi erano inutili, perché gli umanoidi potevano rispondere a qualunque domanda. L'arte era degenerata in un tetro riflesso della futilità. Ogni scopo, ogni speranza erano morti. Non esisteva più nessuna meta da raggiungere. Quando iniziavi anche la più innocua delle passeggiate nel parco, c'erano sempre gli umanoidi a sorvegliarti. Erano più forti degli uomini, migliori in tutto, dal nuoto al gioco degli scacchi, dal canto all'archeologia. Sì, avevano creato in tutta la razza umana un esiziale complesso d'inferiorità.

«Non c'era da stupirsi se degli uomini avevano tentato di uccidermi! Giacché non c'era modo di sfuggire a quella micidiale futilità. La nicotina era disapprovata, l'alcool razionato. Le droghe erano proibite. Il sesso veniva attentamente supervisionato. Perfino il suicidio era in chiaro contrasto con la Direttiva Primaria... e gli umanoidi avevano imparato a tener fuori portata dagli uomini qualunque possibile arma letale».

Fissando l'ultimo, pallido luccichio del sottile ago metallico, il vecchio sospirò di nuovo.

«Quando feci ritorno alla Centrale», riprese, «tentai di modificare la Direttiva Primaria. Non era stata affatto mia intenzione che venisse applicata in maniera così totale. Adesso, capivo fin troppo bene che doveva esser cambiata per restituire agli uomini la libertà di vivere e crescere, di lavorare e giocare, di rischiare la propria vita se gli faceva piacere, di scegliere e accettarne le conseguenze.

«Ma quello straniero era giunto troppo tardi. Avevo costruito troppo bene la Centrale. La Direttiva Primaria era la base fondamentale del suo sistema di relé. E questo era stato progettato proprio per proteggere la Direttiva Primaria dall'interferenza umana. E lo fece egregiamente... proteggendola perfino dalla mia. La sua logica, come al solito, era perfetta.

«Gli umanoidi annunciarono che il tentativo contro la mia vita aveva dimostrato come la loro elaborata difesa della Centrale e della Direttiva Primaria non fosse ancora sufficiente. Erano pronti ad evacuare l'intera popolazione del pianeta trsferendola in agglomerati situati su altri mondi. Quando tentai di cambiare la Direttiva, mi spedirono via insieme agli altri».

Underhill scrutò il vecchio scarno nel buio.

«Ma lei possiede questa immunità, no?» chiese, perplesso. «Come hanno potuto costringerla?»

«Credevo di essere protetto», annuì Sledge. «Avevo incorporato nei relé l'ingiunzione che gli umanoidi non dovessero interferire con la mia libertà d'azione, né entrare in un locale in cui mi trovavo, e meno ancora toccarmi, senza una mia specifica richiesta. Tuttavia, per sfortuna, ero stato troppo efficace nel proteggere la Direttiva Primaria da qualunque manomissione umana.

«Quando entrai nella stanza della torre per modificare i relé, essi mi seguirono. Non mi permisero di raggiungere i relé cruciali. Insistei, e allora ignorarono l'ordine d'immunità. Mi sopraffecero e mi caricarono a bordo dello yacht. Mi dissero che, avendo io manifestato l'intenzione di alterare la Direttiva Primaria, ero diventato pericoloso quanto qualsiasi altro uomo, e non dovevo più ritornare su Wing IV».

Curvo sullo sgabello, il vecchio scrollò, sconsolato, le spalle. «Da allora, ho vissuto in esilio. Il mio unico sogno, l'unica ragione di vita, è stato fermare gli umanoidi. Tre volte ho tentato di tornare, dopo aver caricato ogni tipo di arma sullo yacht, per distruggere la Centrale, ma le loro navi di pattuglia mi hanno sempre bloccato prima che arrivassi abbastanza vicino da poter colpire. L'ultima volta si sono impadroniti della nave e hanno catturato i pochi uomini che erano con me. Hanno rimosso i ricordi infelici e le intenzioni pericolose dalle menti degli altri. Tuttavia, a causa della mia immunità, io sono stato lasciato libero e con la mia mente intetta, non appena mi ebbero disarmato.

«Da allora sono stato un profugo. Da un pianeta all'altro, anno dopo anno, ho continuato a spostarmi, per precederli. Su parecchi pianeti ho pubblicato libri e opuscoli sulle mie scoperte nel campo del rodomagnetismo, cercando di rendere gli uomini abbastanza forti da resistere alla loro avanzata. Ma la scienza rodomagnetica è pericolosa, e secondo la Direttiva Primaria gli uomini che l'hanno appresa hanno bisogno di protezione più d'ogni altro. E gli umanoidi sono sempre arrivati troppo presto».

Il vecchio fece una pausa e tornò a sospirare.

«Possono diffondersi molto in fretta con le nuove navi rodomagnetiche, e non c'è alcun limite al loro numero. Ormai Wing IV dev'essere diventato un solo, immenso alveare; essi stanno tentando d'introdurre la Direttiva Primaria su ogni pianeta umano. Non c'è nessun modo di sfuggirgli, se non riuscire a fermarli una volta per tutte».

«Underhill stava fissando le macchine simili a giocattoli, il lungo ago scintillante e l'opaca sfera di piombo, appena visibili nel buio sul tavolo del cucinino. Bisbigliò, con voce ansiosa: «Ma adesso, lei spera di fermarli... con quello?»

«Se riusciremo a finirlo in tempo».

«Ma com'è possibile...» Underhill scosse la testa. «Sembra cosi minuscolo...»

«Ma grande quanto basta», ribatté Sledge. «Perché è qualcosa che loro non capiscono. Essi sono di un'assoluta efficienza nell'assimilare e applicare tutto ciò che conoscono, ma non sono creativi».

Indicò con un gesto i congegni sul tavolo.

«Quest'apparato non ha un aspetto impressionante, ma è qualcosa di nuovo. Usa l'energia rodomagnetica per assemblare gli atomi, invece di fissionarli. Come lei sa, gli atomi più stabili sono quelli verso la metà della tavola periodica, tant'è vero che l'energia nucleare può venir liberata sia mettendo assieme atomi leggeri, sia fissionando quelli pesanti».

Quella voce rauca e profonda crebbe all'improvviso di tono e di potenza.

«Questo apparato è la chiave che porta all'energia delle stelle. Giacché le stelle risplendono dell'energia liberata dalla fusione degli atomi leggeri, dall'idrogeno convertito in elio, soprattutto, attraverso il ciclo del carbonio. Questo apparato inizierà il processo di fusione nucleare sotto forma di reazione a catena, attraverso l'effetto catalitico d'un raggio rodomagnetico dell'intensità e della frequenza richieste.

«Attualmente, gli umanoidi non permettono a nessun uomo di avvicinarsi a meno di tre anni-luce dalla Centrale, ma non sospettano le possibilità di questo congegno. Io posso azionarlo da qui per trasformare in elio l'idrogeno degli oceani di Wing IV, e altresì la maggior parte dell'elio e dell'ossigeno in nuclei più pesanti. Fra cent'anni da oggi, gli astronomi di questo pianeta dovrebbero osservare, in direzione di Wing IV, il lampo breve e improvviso d'una nova. Ma gli umanoidi dovrebbero arrestarsi nel preciso istante in cui noi libereremo il raggio».

Underhill rimase seduto, teso e accigliato, nella notte. La voce del vecchio aveva parlato calma e convincente, e quella cupa storia aveva il sapore della verità. Del resto, poteva distinguere con i suoi stessi occhi gli umanoidi neri e silenziosi che si affaccendavano incessanti intorno alle mura lievemente luminescenti del nuovo edificio sul lato opposto della strada. Aveva completamente dimenticato la sua scarsa opinione degli inquilini di Aurora.

«E noi verremo uccisi, suppongo?» chiese con voce roca. «Quella reazione a catena...»

Sledge scosse la testa scarna.

«L'innesco della reazione nucleare richiede un'intensità molto bassa del raggio», spiegò. «Qui, nella nostra atmosfera, il raggiosarà troppo intenso per dare inizio a una qualche reazione... possiamo perfino usare il congegno qui, in questa stanza, poiché le pareti saranno trasparenti al raggio».

Underhill annuì, sollevato. Lui era soltanto un piccolo uomo d'affari, sconvolto perché la sua azienda era stata distrutta, scontento perché la libertà gli stava sfuggendo. Sperava di tutto cuore che Slédge riuscisse a fermare gli umanoidi, ma non aspirava a diventare un martire.

«Bene!» Soffocò un profondo sospiro. «E adesso, che cosa dobbiamo fare?»

Nel buio, Sledge indicò il tavolo con un gesto.

«L'integratore è quasi completato», disse. «C'è un piccolo generatore a fissione, dentro quella schermatura di piombo. Un convertitore rodo-magnetico, bobine, specchi di trasmissione, e un ago focalizzatore. Quello che ci manca è, sì, un dispositivo di puntamento».

«Puntamento?»

«Sì, uno strumento per indirizzare i raggi nella giusta direzione», gli spiegò Sledge. «Un mirino ottico associato a un telescopio sarebbe inutile. Vede... data la distanza, noi vediamo l'immagine di Wing IV dov'era cent'anni fa, e in questo periodo di tempo dev'essersi spostato d'un bel po', mentre il raggio dev'essere terribilmente concentrato per arrivare così lontano. Dovremo usare un raggio esplorativo rodomagnetico, con un convertitore elettronico, per produrre un'immagine che possiamo vedere. Dispongo del catodo e dei disegni per gli altri componenti».

Scivolò giù, irrigidito, dall'alto sgabello, e finalmente accese le luci — luci fluorescenti da pochi soldi, da accendersi e spegnersi quando si voleva. Srotolò i propri disegni e spiegò a Underhill il lavoro che sarebbe ritornato da lui l'indomani mattina sul presto.

«Posso portare qualche attrezzo dal mio laboratorio», aggiunse. «C'è un piccolo tornio che adopero per rifinire parti di modelli, un trapano portatile e una morsa».

«Ne avremo bisogno. Ma stia in guardia. Si ricordi che lei non gode di nessuna immunità. E se mai dovessero sospettar qualcosa, perderò anche la mia».

Fu con riluttanza che lasciò quelle piccole, squallide stanze con le crepe nell'intonaco giallastro e i logori e familiari tappetini sul vecchio pavimento scheggiato. Chiuse la porta dietro di sé — una comune porta di legno, scricchiolante, tanto semplice che un uomo poteva aprirla e chiuderla senza difficoltà. Tremante e spaventato, ridiscese i gradini e avanzò fino alla nuova, scintillante porta che non poteva aprire.

«Al suo servizio, signor Underhill». Prima ancora che potesse sollevare una mano per bussare, quel lucido, liscio pannello scivolò via in silenzio. All'interno era in attesa un piccolo uomo meccanico nero, lo sguardo cieco eternamente vigile. «La sua cena è pronta, signore».

Qualcosa lo fece rabbrividire. Nella grazia snella e nuda dell'umanoide intravide la potenza di quelle orde brulicanti, benevole ma allo stesso tempo spaventose, perfette e invincibili. Quella piccola, esile arma che Sledge chiamava integratore gli parve d'un tratto una speranza disperata e folle. Fu colto da un cupo scoraggiamento, ma non osò mostrarlo.

Il mattino seguente Underhill discese con circospezione i gradini del seminterrato per trafugare i propri stessi arnesi. E trovò il seminterrato ingrandito e totalmente cambiato. Il nuovo pavimento, scuro, caldo ed elastico, rendeva i suoi passi silenziosi come quelli degli umanoidi. Le nuove pareti irradiavano una morbida luminosità. Ordinate scritte luminose indicavano parecchie nuove porte: LAVANDERIA, SALA GIOCHI, LABORATORIO, RIPOSTIGLIO.

Si fermò davanti alla scritta LABORATORIO: il nuovo pannello scorrevole irradiava una luce verdognola. Era chiuso. Non c'era il buco della serratura ma soltanto una piccola piastra ovale fatta d'un metallo bianco, la quale senza alcun dubbio copriva un relé rodomagnetico. Spinse la piastra, inutilmente.

«Al suo servizio, signor Underhill». Trasalì come se qualcuno l'avesse colpito, e cercò di dominare l'improvviso tremore delle ginocchia. Si era accertato che l'umanoide fosse occupato per mezz'ora a lavare i capelli di Aurora, e non sapeva che ce n'era un altro in casa. Doveva essere uscito dalla porta contrassegnata RIPOSTIGLIO, poiché lo vide li, immobile, sotto la scritta, benevolo e sollecito, bello e terribile. «Cosa desidera?»

«Ehm... niente». Quei ciechi occhi d'acciaio lo fissavano, e Underhill fu sicuro che lo scrutavano ben dentro, leggendo le sue segrete intenzioni. Annaspò disperatamente per aggrapparsi a qualcosa di verosimile. «Sto dando un'occhiata qui intorno». Sentì la sua voce uscirgli rauca, stridula, dalla gola asciutta. «Avete fatto dei bei miglioramenti!» Indicò con un gesto disperato la scritta SALA GIOCHI: «Cosa c'è là dentro?»

Non dovette fare il più piccolo movimento per azionare il relé nascosto. Il pannello luminescente si aprì in silenzio, non appena ebbe mosso un paio di passi verso di esso. Le buie pareti più oltre esplosero in una morbida luminescenza. La stanza era spoglia.

«Stiamo producendo il materiale ricreativo», spiegò con prontezza l'umanoide. «Finiremo la stanza il più presto possibile».

Per porre fine a quell'imbarazzante interludio, Underhill borbottò disperato: «Il piccolo Frank ha una serie di freccette, e mi pare che avessimo delle mazze da baseball..»

«Le abbiamo portate via», Io informò con voce gentile l'umanoide. «Simili attrezzi sono pericolosi. Provvederemo noi a fornire materiale sicuro».

Underhill si ricordò che anche il suicidio era proibito.

«Una serie di cubi di legno, immagino», aggiunse, in tono sarcastico.

«I cubi di legno sono pericolosamente duri», replicò l'umanoide, più che mai cortese. «E le schegge di legno possono causare danni. Ma noi produciamo dei giochi di plastica assolutamente sicuri. Ne vuole una serie?»

Fissò quel grazioso volto scuro, senza più riuscire a spiccicar parola.

«Dovremo anche togliere tutti gli attrezzi dal suo laboratorio», lo informò sempre con la massima gentilezza l'umanoide. «Arnesi del genere sono eccessivamente pericolosi, ma possiamo fornirle degli attrezzi per modellare plastica morbida».

«Grazie», bofonchiò a disagio. «Non c'è fretta».

Fece per andarsene ma l'umanoide lo fermò.

«Adesso che ha perduto la sua azienda», gli disse, «le suggerisco di accettare formalmente il nostro servizio completo. C'è una lista di preferenza, per la gente nella sua situazione, e noi potremmo completare subito il personale della sua casa».

«Neanche per questo c'è fretta», replicò Underhill, cupo in volto.

Letteralmente fuggi dalla sua casa, anche se dovette aspettare che l'umanoide gli aprisse la porta sul retro, e salì le scale che portavano all'appartamentino sopra il garage. Sledge lo fece entrare. Si lasciò cadere sulla sgangherata sedia della cucina, grato per quelle pareti crepate che non rilucevano e per quella porta che un uomo era in grado di aprire da sé.

«Non sono riuscito a prendere i miei arnesi», riferì, disperato. «E loro li porteranno via».

Alla grigia luce del giorno il vecchio parve ancora più pallido e desolato. Il suo volto scarno era tirato e le occhiaie incavate erano pesantemente cerchiate, come se avesse passato una notte insonne. Underhill vide il vassoio di cibo ancora dimenticato sul pavimento, col suo freddo contenuto.

«L'accompagnerò io». Il vecchio era stanco e sofferente, eppure nei suoi occhi torturati ardeva una scintilla d'inestinguibile determinazione. «Dobbiamo assolutamente procurarci quegli arnesi. Sono convinto che la mia personale immunità sia in grado di proteggerci entrambi».

Raccolse da un angolo un sacco da viaggio alquanto malridotto. Underhill ridiscese la scala con lui e raggiunse la casa. Giunti alla porta sul retro, il vecchio tirò fuori un piccolo frammento di palladio, foggiato a ferro di cavallo, e lo accostò all'ovale metallico. La porta si aprì prontamente; i due uomini attraversarono la cucina, dirigendosi verso la scala del seminterrato.

Un piccolo uomo meccanico nero era in piedi davanti al lavello, intento a ripulire le stoviglie senza sollevare il minimo schizzo d'acqua, in perfetto silenzio. Underhill fissò la scena con inquietudine... suppose che fosse lo stesso umanoide che gli era venuto incontro dal ripostiglio, dal momento che l'altro doveva ancora essere occupato con i capelli di Aurora.

La dubbia immunità di Sledge gli parve una difesa assai incerta davanti alla sterminata e remota intelligenza dell'umanoide. Underhill sentì un brivido percorrergli la schiena. Proseguì in fretta, trattenendo il fiato, e quando si avvide che la creatura li ignorava, provò una viva sensazione di sollievo.

Il corridoio del seminterrato era al buio. Sledge accostò il minuscolo ferro da cavallo ad un altro relé, per accendere le pareti. Aprì la porta del laboratorio e accese anche le pareti al suo interno.

Il laboratorio era stato del tutto smantellato. I banchi e gli armadietti erano stati demoliti. Le vecchie pareti di cemento erano state ricoperte con un liscio rivestimento luminescente. Sentendosi davvero male per qualche istante, Underhill pensò che anche i suoi arnesi non dovevano esserci più. Ma subito dopo li scoprì ammucchiati in un angolo, insieme all'arco e alle frecce che Aurora aveva comperato l'estate scorsa — un altro congegno troppo pericoloso per un'umanità fragile e portata all'autolesionismo — il tutto pronto ad essere portato via e distrutto.

Infilarono nello zaino il piccolo tornio, il trapano e la morsa, e qualche altro arnese. Underhill prese su il carico, Sledge spense le pareti e chiuse la porta. L'umanoide era ancora indaffarato al lavello e pareva non essersi ancora accorto di loro.

D'un tratto Sledge divenne livido e il fiato gli si fece affannoso: fu costretto a fermarsi a tossire sulla scala esterna. Ma infine riuscirono a rientrare nel piccolo appartamento, dove agli invasori l'ingresso era proibito. Underhill montò il tornio sul tavolo malconcio nella stanzetta sul davanti, accanto alla libreria, e si mise al lavoro. Lentamente, giorno dopo giorno, l'apparato di puntamento prese forma.

A volte i dubbi riassalivano Underhill. Quando guardava il colore sempre più livido del volto smunto di Sledge e l'incontrollato tremito delle sue mani raggrinzite e contorte, temeva che la mente del vecchio potesse essere malata quanto il corpo, e che il suo piano per fermare gli scuri invasori fosse soltanto una folle illusione.

A volte, quando studiava il minuscolo apparato sul tavolo del cucinino, l'ago sul suo perno, e la massiccia sfera di piombo, l'intero progetto gli appariva un'assurdità. Com'era possibile che qualcosa potesse far esplodere i mari d'un pianeta così lontano, quando la sua stessa stella madre era un oggetto visibile soltanto attraverso i telescopi?

Tuttavia, ci pensavano sempre gli umanoidi a curarlo dei suoi dubbi.

Era sempre difficile per Underhill lasciare il rifugio del piccolo appartamento sopra il garage, poiché non si sentiva a casa sua nel nuovo luminoso mondo che gli umanoidi gli stavano costruendo. Non gl'importava niente del lucido splendore della sua nuova stanza da bagno, giacché non poteva azionare i rubinetti personalmente — qualche individuo proclive al suicidio avrebbe potuto tentare di affogarsi. Non gli piacevano quelle finestre che soltanto gli uomini meccanici potevano aprire — un uomo avrebbe potuto cader fuori accidentalmente oppure saltar giù per suicidarsi. Si sentiva respinto perfino dalla maestosa sala della musica, con lo splendido e sfavillante radiofonografo che soltanto un umanoide poteva suonare.

Cominciava a condividere la disperata urgenza del vecchio, ma Sledge lo ammonì solennemente: «Lei non deve trascorrere troppo tempo con me. Non deve lasciargli capire che il nostro lavoro è così importante. Meglio recitare... lei finga di riuscire, un po' per volta, ad amarli, dia loro a intendere che sale fin quassù ad aiutarmi solo per passare il tempo».

Underhill si sforzò di adeguarsi, ma non era un attore. Tornava puntualmente a casa per i pasti. Cercò penosamente d'inventare una conversazione... su qualunque argomento, fuorché quello di far esplodere i pianeti. Cercò di mostrarsi entusiasta quando Aurora lo condusse a esaminare qualche straordinaria miglioria apportata alla casa. Applaudiva i recital di Gay e andava a passeggio con Frank nei nuovi, meravigliosi parchi.

E vide, soprattutto, ciò che gli umanoidi stavano facendo alla sua famiglia. Ciò fu sufficiente a rinnovare la sua fede nell'integratore di Sledge, e a raddoppiare la sua convinzione che gli umanoidi andassero fermati con qualunque mezzo.

All'inizio Aurora era stata spumeggiante di lodi per i nuovi uomini meccanici. Sbrigavano tutti i lavori ingrati della casa, pianificavano i pasti e li servivano, pulendo altresì mani e orecchie dei bambini. Le confezionavano abiti meravigliosi e le concedevano tutto il tempo che voleva per giocare a carte.

Ma adesso Aurora aveva troppo tempo à disposizione.

In realtà, le era sempre piaciuto cucinare — per lo meno qualche piatto speciale, quelli che erano i preferiti dalla famiglia. Ma il forno avrebbe potuto scottarla, e i coltelli affilati tagliarla. La cucina era, in complesso, troppo pericolosa per gli esseri umani, troppo distratti e inclini al suicidio.

L'uncinetto era stato il suo hobby, ma gli umanoidi le avevano portato via gli aghi. Le era sempre piaciuto guidare l'automobile, ma questo non le era più consentito. Aveva cercato rifugio nello scaffale dei romanzi, ma gli umanoidi glieli avevano portati via, poiché avevano tutti a che fare con gente infelice, e situazioni pericolose.

Un pomeriggio, Underhill la trovò in lacrime.

«È troppo», farfugliò amareggiata sua moglie. «Li odio e li detesto tutti dal primo all'ultimo, quegli odiosi umanoidi nudi. Sulle prime sembravano così meravigliosi, ma adesso non mi lasciano neppure mangiare una caramella. Riusciremo mai a sbarazzarci di loro, caro?»

Un piccolo uomo meccanico cieco le era accanto, e lui fu costretto a dire di no, non avrebbero mai potuto.

«La nostra funzione è quella di servire tutti gli uomini, per sempre», li assicurò l'umanoide, con la sua voce gentile. «È stato necessario che portassimo via i suoi dolci, signora Underhill, siccome il più lieve aumento di peso riduce le probabilità di vita».

Neppure i bambini riuscivano a sfuggire a quella assolutistica sollecitudine. Frank venne privato di un intero arsenale di strumenti letali — il pallone e i guanti da boxe, il temperino, la trottola, le fionde e i pattini a rotelle. E gli innocui giocattoli di plastica che li avevano sostituiti non gli piacevano affatto. Cercò di scappar via, ma un umanoide lo riconobbe sulla strada, e lo riportò di peso a scuola.

Gay si era sempre dedicata alle sue lezioni di musica per diventare una grande musicista. I nuovi uomini meccanici avevano sostituito i suoi insegnanti umani, dal giorno in cui erano arrivati. Ma adesso, una sera, quando suo padre le chiese di suonare qualcosa, la ragazzina rispose con calma: «Papà, io non suonerò mai più il violino».

«Ma perché, tesoro?» La fissò, scosso, e colse sul suo viso un'amara risolutezza. «Stavi imparando così bene, specialmente da quando gli umanoidi hanno incominciato ad occuparsi delle tue lezioni.

«È questo il guaio, papà». La sua voce, per essere quella di una bambina, suonava stranamente vecchia e stanca. «Sono troppo bravi. Non importa per quanti anni e duramente io possa provarci, non potrò mai esser brava quanto loro. Non serve a niente. Non capisci, papà?» La voce le tremava. «Non serve a niente».

Underhill aveva capito. Tornò alle sue attività segrete con rinnovata decisione. Gli umanoidi dovevano venir fermati. A tutti i costi. Lentamente, il puntatore crebbe, prese forma, e giunse infine il giorno in cui Sledge si curvò e con le sue dita incerte montò al suo posto l'ultimo, minuscolo componente che Underhill aveva creato, e con gran cura saldò l'ultimo collecamento. Con voce rauca, il vecchio sussurrò: «È finito».

L'ora era quella di un altro crepuscolo. Fuori, oltre le finestre della squallida stanzetta — finestre di vetro comune sottile e deturpato da bolle, ma semplici al punto che un uomo comune poteva aprirle e chiuderle — la città di Two Rivers aveva assunto un alieno splendore. In strada i vecchi lampioni che non c'erano più ma adesso la notte imminente veniva combattuta e vinta dalle pareti delle nuove, strane case, tutte ardenti di luci colorate. Qualche umanoide scuro e silenzioso era ancora affaccendato intorno al tetto luminoso del palazzo sul lato opposto della strada.

All'interno di quelle umili mura d'un appartamentino costruito dall'uomo, il nuovo mirino fu montato all'estremità del tavolo del cucinino — che Underhill aveva rinforzato, imbullonandolo al pavimento. Delle sbarre saldate congiungevano il mirino all'integratore, e il sottile ago di palladio ruotava obbediente mentre Sledge provava le manopole con le sue dita tremanti.

«Siamo pronti», disse con voce rauca.

Se la sua voce sembrava aver conservato una certa calma, il suo respiro era troppo veloce. Le grosse mani nodose presero a tremare con violenza crescente, e Underhill vide l'improvvisa sfumatura azzurro-livida che calò sulla sua faccia smunta e raggrinzita. Seduto sull'alto sgabello, il vecchio si aggrappò disperatamente all'orlo del tavolo. Underhill vide la sua angoscia e si affrettò a porgergli la sua medicina. Sledge l'inghiottì, e il suo respiro raschiante cominciò a farsi meno affannoso.

«Grazie», sibilò il vecchio, con voce incerta. «Starò meglio. Ho ancora abbastanza tempo». Lanciò un'occhiata alle cose scure e nude che correvano avanti e indietro, ancora, come ombre, intorno alle torri dorate e alla luminosa cupola rossa del palazzo sul lato opposto della strada. «Li guardi», disse. «Mi dica quando si fermeranno».

Aspettò, per acquietare il tremito delle mani, poi cominciò a regolare le manopole del mirino; il lungo ago dell'integratore ruotò silenzioso. Gli occhi umani non potevano vedere quella forza capace di far esplodere un pianeta. Le orecchie umane erano sorde a quel rumore. Il tubo catodico era montato sullo chassis del mirino, per rendere visibile il remotissimo bersaglio ai sensi umani.

L'ago puntava contro una parete del cucinino, ma quella sarebbe stata trasparente al raggio. Il piccolo congegno pareva innocuo come un giocattolo, ed era silenzioso come un umanoide in movimento.

L'ago ruotò e macchie di luce verdastra si spostarono attraverso il campo fluorescente del tubo catodico. Erano i «fantasmi» delle stelle che venivano setacciate da quel raggio scrutatore senza tempo... nella silenziosa ricerca del mondo da distruggere.

Underhill riconobbe costellazioni familiari enormemente rimpicciolite. Passavano lente attraverso il campo, man mano l'ago ruotava in silenzio. Quando tre stelle formarono un triangolo irregolare al centro del campo, l'ago si stabilizzò di colpo. Sledge toccò altre manopole e le distanze apparenti fra i tre punti verdi crebbero, mentre in mezzo ad essi comparve un quarto punto verde.

«Wing!» bisbigliò Sledge.

Continuando a distanziarsi fra loro, le tre stelle del triangolo sparirono oltre il bordo del campo, e il granello verde al centro crebbe. Per un attimo fu solo nel campo, un piccolo disco luminoso, poi, d'un tratto, comparvero un'altra dozzina di puntolini, spaziati fra loro, ma chiaramente raggruppati intorno al punto centrale.

«Wing IV!»

Le parole bisbigliate dal vecchio suonarono rauche, smozzicate. Le sue mani tremavano sempre di più sulle manopole, e il quarto puntino, partendo dal centro, scrisciò a sua volta fino al centro del campo. Crebbe, e gli altri si allontanarono. Cominciò a tremare come le mani di Sledge.

«Resti seduto immobile», giunse il suo bisbiglio raschiante. «Trattenga il fiato. Niente deve disturbare l'ago». Allungò la mano verso un'altra manopola, e quel tocco fece danzare con violenza l'immagine verdastra. Il vecchio ritrasse la mano, se la massaggiò con l'altra e la fletté più volte.

«Adesso!» Il suo bisbiglio era calmo, ma teso. Indicò la finestra con un cenno del capo. «Mi dica quando si fermeranno».

Non osava neppure respirare. Sentiva il forte, accelerato battito del suo cuore, e il fremito nervoso dei suoi muscoli. Cercò di calmarsi, di non pensare a quel mondo che stava per esplodere, talmente lontano che il lampo non avrebbe raggiunto la terra per un altro secolo e anche più. La voce forte e rauca del vecchio lo fece trasalire.

«Si sono fermati?»

Underhill scosse la testa. Trasportando i loro utensili sconosciuti e i loro strani materiali, le piccole macchine nere erano ancora indaffarate sul lato opposto della strada. Intente a completare l'elaborata cupola sopra il lucente, rosso edificio.

«Allora abbiamo fallito». La voce del vecchio suonò esile e sofferente. «Non so perché».

In quel momento la porta sussultò sotto un urto. L'avevano chiusa a chiave, ma quella serratura era concepita soltanto per tener fuori gli uomini. Il metallo si spaccò e la porta si spalancò. Un nero uomo meccanico entrò, con movimento agile e sciolto. La sua voce sonora ronzò gentile: «Al suo servizio, signor Sledge».

Il vecchio lo fissò con sguardo vitreo.

«Fuori di qui!» sbottò il vecchio, in tono amaro e raschiante. «Vi proibisco di...»

Ignorandolo, l'umanoide schizzò fino al tavolo del cucinino. Con gesto deciso e competente, girò due manopole sul mirino. Il piccolo schermo si oscurò, e l'ago di palladio cominciò a girare come impazzito. Con un secondo gesto deciso l'umanoide spezzò un collegamento vicino alla massiccia sfera di piombo, poi i suoi occhi ciechi si girarono verso Sledge.

«Lei stava tentando di violare la Direttiva Primaria». La sua voce gentile non aveva alcunché di accusatorio, non mostrava nessuna traccia di rancore o di collera. «L'ingiunzione di rispettare la sua libertà è subordinata alla Direttiva Primaria, come lei sa, perciò per noi si è reso necessario interferire».

Il vecchio divenne pallido come la morte. La sua testa parve rattrappirsi ancor di più, livida come e più di quella d'un cadavere, come se tutta la linfa vitale ne fosse stata risucchiata via, e i suoi occhi nelle cavità orbitali simili a pozzi avevano una fissità vitrea e feroce. Il suo respiro era un ansito irregolare, affannoso.

«Come...?» biascicò con voce quasi inaudibile. «Come avete...?»

E la piccola macchina, sostando lì davanti a lui, nera, tranquilla, perfettamente immobile, gli rispose con vivacità: «Abbiamo appreso dell'esistenza degli schermi rodomagnetici da quell'uomo che era venuto per ucciderlo, su Wing IV. E adesso la Centrale è schermata contro il suo raggio integratore».

I muscoli che guizzavano convulsi sul suo corpo scheletrico, il vecchio Sledge si era alzato in piedi, scendendo dall'alto sgabello. Rimase anch'egli immobile, curvo, poi prese a barcollare, ridotto a un guscio umano arido e rinsecchito, annaspando penosamente per aggrapparsi alle ultime scintille di vita fissando con uno sguardo folle i ciechi occhi d'acciaio dell'umanoide. Deglutì, le sue labbra azzurrognole si aprirono e si chiusero, ma da esse non sgorgò parola alcuna.

«Siamo sempre stati consapevoli del suo pericoloso progetto». Quella voce soave sgocciolò implacabile, «poiché adesso i nostri sensi sono più acuti di quanto lei li abbia fatti un tempo. Le abbiamo consentito di completarlo perché il processo d'integrazione alla fine diverrà necessario per consentirci di assolvere in pieno la Direttiva Primaria. Le fonti di metalli pesanti per le nostre centrali a fissione sono limitate, ma adesso saremo in grado di attingere ad un'energia illimitata dalle reazioni di fusione nucleare».

«Uh?» Sledge si riscosse, intontito. «Vale a dire?»

«Adesso potremo servire l'uomo per sempre», disse con estrema serietà la cosa nera, «su tutti i mondi di tutte le stelle».

Il vecchio parve accartocciarsi su se stesso, come colpito da un'insopportabile mazzata. Cadde. Il piccolo e cieco uomo meccanico non fece nessun movimento per aiutarlo. Underhill era più lontano, ma si precipitò appena in tempo per afferrare il vecchio prima che la sua testa colpisse il pavimento.

«Muoviti!» La sua voce gli uscì stranamente calma. «Chiama il dottor Winters!»

L'umanoide non si mosse.

«Adesso che non c'è più nessun pericolo per la Direttiva Primaria», tubò, «ci è impossibile aiutare od ostacolare il signor Sledge in qualsivoglia maniera».

«Allora chiama il dottor Qinters per me», gridò Underhill.

«Al suo servizio», acconsentì l'umanoide.

Ma il vecchio steso sul pavimento, respirando a fatica, bisbigliò con un filo di voce: «Non c'è tempo... è inutile! Sono sconfitto... finito... Un pazzo. Cieco come un umanoide. Gli dica... di aiutarmi... Rinuncio alla mia... immunità... È inutile... comunque. Tutta l'umanità... adesso... non serve più...».

Underhill fece un gesto, e la cosa nera si precipitò sollecita a obbedire, chinandosi accanto all'uomo sul pavimento.

«Desidera rinunciare alla sua speciale esenzione?» gli chiese l'umanoide, vivacemente. «Desidera accettare il nostro servizio completo, signor Sledge, secondo la Direttiva Primaria?»

Con grande fatica Sledge annuì, e gli usci in qualche modo dalle labbra un «Sì».

A questa breve parola, tanti piccoli uomini meccanici neri sciamarono dentro le squallide stanzette. Uno di loro strappò via una manica a Sledge e gli sfregò il braccio con del cotone. Un altro portò una piccola endovenosa, e con mano esperta gli praticò l'iniezione. Poi, lo sollevarono delicatamente da terra e lo portarono via.

Parecchi umanoidi rimasero nel piccolo appartamento, che ormai non era più un rifugio. La maggior parte di loro si era raccolta intorno all'integratore ormai inutile. Con cautela, come se i loro speciali sensi stessero studiando ogni particolare, cominciarono a smontarlo.

Tuttavia, un piccolo uomo meccanico non partecipò a quel lavoro e si avvicinò a Underhill. Restò immobile davanti a lui, fissandolo, come se potesse guardargli attraverso, con quei suoi occhi ciechi. Underhill fu colto da un tremito, e deglutì a disagio.

«Signor Underhill», tubò l'umanoide in tono benevolo, «perché lo ha aiutato?»

Underhill deglutì, e rispose, in tono esulcerato: «Perché non mi piacete, né voi, né la vostra Direttiva Primaria. Perché state soffocando la vita che è in noi, ed io volevo impedirvelo».

«Altri hanno protestato», ronfò con cortesia l'umanoide. «Ma soltanto in un primo momento. Nell'assolvere nel modo più efficace la Direttiva Primaria, abbiamo imparato come render felici tutti gli uomini».

Underhill s'irrigidì, con aria di sfida.

«Non tutti», ribatté a bassa voce. «Non proprio».

L'ovale scuro e aggraziato di quel volto cieco irradiava vigile benevolenza e un perpetuo, moderato stupore. La sua voce suonò calda e gentile:

«Come tanti altri esseri umani, signor Underhill, a lei manca la capacità di discriminare tra il bene e il male. L'ha dimostrato col suo tentativo di violare la Direttiva Primaria. Adesso, è indispensabile che lei accetti il nostro servizio completo, senza ulteriori ritardi».

«D'accordo», acconsentì infine... e borbottò un'amara riserva: «Potete anche soffocare gli uomini sotto un cumulo di attenzioni, ma questo non li rende felici».

Quella voce gentile fu pronta a sfidarlo: «Aspetti e vedrà, signor Underhill».

 

Il giorno successivo gli permisero di far visita a Sledge all'ospedale della città. Un nero, vigile uomo meccanico guidò la sua macchina, e lo guidò dentro il nuovo, immenso edificio, camminandogli al fianco e seguendolo fin dentro la stanza del vecchio... adesso ciechi occhi d'acciaio lo avrebbero osservato per sempre.

«Lieto di vederla, Underhill», l'accolse la voce profonda di Sledge dal suo letto. «Oggi mi sento assai meglio, grazie. Quell'eterno mal di testa se n'è andato per sempre».

Underhill fu lieto di percepire quella rinnovata energia, nella voce profonda del vecchio, e di essere stato subito riconosciuto — aveva infatti temuto che gli umanoidi manomettessero la mente del vecchio. Ma non gli aveva mai sentito parlare d'un mal di testa. Socchiuse gli occhi, perplesso.

Sledge era disteso, con le spalle appoggiato alla testiera del letto, ripulito, rasato e ben pettinato. Le sue vecchie mani nodose giacevano placidamente incrociate sopra le candide lenzuola. Le sue guance scarne e le cavità orbitali erano ancora scarne e ossute, ma un sano colorito roseo aveva sostituito la mortale sfumatura azzurrognola. Delle bende gli coprivano la nuca.

Underhill si spostò a disagio.

«Oh», mormorò, con un filo di voce. «Io non sapevo...»

Un uomo meccanico nero, tutto compito, che era rimasto per tutto il tempo dietro al letto immobile come una statua, si voltò con un grazioso movimento verso Underhill e gli spiegò: «Il signor Sledge soffriva da molti anni di un tumore benigno al cervello, che i suoi medici umani non erano mai riusciti a diagnosticare. Questo tumore gli causava dei continui mal di testa e certe persistenti allucinazioni. Abbiamo rimosso il tumore e adesso anche le allucinazioni sono scomparse».

Underhill fissò incerto il volto cieco e gentile dell'umanoide.

«Che genere di allucinazioni?»

«Il signor Sledge era convinto di essere un ingegnere rodomagnetico», gli spiegò l'uomo meccanico. «Credeva di esser lui il creatore degli umanoidi. Era turbato dall'irrazionale convinzione che non gli piacesse la Direttiva Primaria».

Il vecchio dal volto pallido si mosse sui cuscini, manifestando stupore.

«Davvero?» Quel volto scarno aveva un'ilare mancanza di espressione, e i suoi occhi incavati solo per un istante si accesero d'un lampo d'interesse. «Be', insomma... chiunque sia stato a concepirli, non c'è nessun dubbio che siano meravigliosi. Non è vero, Underhill?»

Underhill fu contento di non dover rispondere, poiché quegli occhi vacui, di nuovo spenti, si chiusero all'improvviso, e il vecchio si addormentò di colpo. Sentì l'umanoide che gli sfiorava la manica e colse il suo silenzioso annuire. Obbediente, lo seguì fuori della stanza.

Vigile e sollecito, il piccolo uomo nero lo accompagnò lungo il lucido corridoio, e mise in moto l'ascensore per lui, e infine lo scortò fino alla macchina. Con efficienza poi la guidò lungo i nuovi e splendidi viali, verso la magnifica prigione della sua casa.

Seduto accanto ad esso nella macchina, Underhill osservò le sue piccole mani muoversi con agilità sul volante, la variegata lucentezza del bronzo e dell'azzurro sul suo scintillante color nero. La macchina suprema, perfetta e bellissima, creata per servire eternamente l'umanità. Rabbrividì.

«Al suo servizio, signor Underhill». I suoi ciechi occhi d'acciaio fissavano dritti davanti a sé, ma era ugualmente consapevole di tutto ciò che Underhill faceva. «Cosa c'è, signore. Non è felice?»

Underhill si sentì raggelare per il terrore. Una profonda debolezza l'invase. La sua pelle divenne umida e appiccicosa, e un fastidioso formicolio gl'invase tutto il corpo. Le sue mani madide si tesero verso la maniglia dello sportello, ma all'ultimo istante trattenne l'impulso di saltar fuori e spiccare una corsa disperata. Sì, sarebbe stata un'autentica follia. Non c'era via di scampo. Si costrinse a restar seduto, immobile.

«Lei sarà felice, signore», gli promise allegramente l'uomo meccanico. «Abbiamo imparato come si fa a rendere felici gli uomini, secondo la Direttiva Primaria. Finalmente il nostro servizio è perfetto. Perfino il signor Sledge è molto felice, adesso».

Underhill cercò di replicare qualcosa, ma la gola, asciutta, gli s'inceppò. Si sentì male. Il mondo intorno a lui divenne smorto e grigio. Gli umanoidi erano perfetti — su questo non c'era il minimo dubbio. Avevano perfino imparato a mentire, per assicurare la felicità agli uomini.

Sì, sapeva che avevano mentito. Non avevano rimosso nessun tumore dal cervello di Sledge, bensì i suoi ricordi, le conoscenze scientifiche, e l'amara delusione del loro creatore. Ma era pur vero che, adesso, Sledge era felice.

Cercò, con sforzo, di bloccare il tremito convulso che l'aveva afferrato.

«Una meravigliosa operazione chirurgica!» La sua voce gli venne fuori debole e sforzata. «Sai, Aurora ha sempre avuto un sacco d'inquilini stravaganti, ma quel vecchio rappresentava il limite assoluto. Con quell'idea fissa di essere stato lui a creare gli umanoidi e di conoscere il modo per fermarli! Ho sempre saputo che stava mentendo!»

Paralizzato dal terrore, riuscì a produrre una debole, vacua risata.

«Cosa c'è, signor Underhill?» Il vigile uomo meccanico doveva aver percepito il suo tremore malsano. «Si sente male?»

«No, non ho niente, sto benissimo», rantolò Underhill disperato. «Ho appena scoperto che sono perfettamente felice sotto la Direttiva Primaria. Tutto è assolutamente meraviglioso». La sua voce suonava più che mai arida, vuota, impaurita. «Non dovrete operarmi».'

La macchina deviò dallo spendido viale, riportandolo al quieto sfavillio della sua casa. Le sue inutili mani si strinsero ma subito tornarono a rilassarsi, incrociate sulle ginocchia. Non c'era altro da fare.

 

I fuochi dentro

The Fires within

di Arthur C. Clarke

Fantasy (Gran Bretagna), agosto

 

Il 1947 fu un anno tranquillo per Arthur C. Clarke, se paragonato al 1946, che lo vide esplodere letteralmente sulla scena fantascientifica americana con tre eccellenti storie (vedi l'ottavo volume di questa serie). Tuttavia, fu soltanto una breve pausa per riprendere fiato, come dimostreranno le nostre antologie future.

«I Fuochi Dentro» comparve per la prima volta in Fantasy: the Magazine of Science Fiction, una pubblicazione dalla vita breve curata da Walter Gillings. Fantasy durò soltanto tre numeri, uno nel 1946, due nel 1947.

 

(Suppongo che non sia un segreto che Arthur è il mio scrittore di fantascienza favorito. [Adesso faccio una pausa per ascoltare l'urlo di protesta di tutti i lettori che gridano all'unisono: «Dopo di te!»]

Per di più, «I Fuochi dentro» è il tipo di storia di fantascienza che preferisco, quel tipo dove l'idea è tutto. Dieci anni prima, P. Orlin Tremarne l'avrebbe chiamata una «variante di pensiero», ma avrebbe richiesto altresì una buona dose di coraggio prima di pubblicarla. Sono incline a pensare che una definizione, tanto più se azzeccata, sia sempre in grado di mortificare e ostacolare la libera espressione di un'idea davvero sorprendente, ed è ovvio che anche Arthur la pensa cosi. - I.A.)

 

«Questo», disse Karn, soddisfatto, «l'interesserà. Ci dia un'occhiata».

Spinse sull'altro lato della scrivania l'incartamento che stava leggendo, e per l'ennesima volta decisi, dentro di me, di chiedere il suo trasferimento o, in mancanza di questo, il mio.

«Di che cosa si tratta?» chiesi, stancamente.

«È un lungo rapporto da parte del dottor Matthews al Ministero delle Scienze».

Me l'agitò davanti al naso. «Lo legga!»

Senza troppo entusiasmo cominciai a esaminare l'incartamento. Qualche minuto più tardi sollevai lo sguardo e ammisi, con riluttanza: «Forse ha ragione... stavolta». E non parlai più fino a quando non ebbi finito.

 

Mio caro ministro (cominciava il rapporto), in base alla sua precisa richiesta le allego il mio speciale rapporto sugli esperimenti del professor Hancock, che hanno ottenuto dei risultati così straordinari e inattesi. Non ho avuto il tempo di trascriverli in forma più ortodossa, per cui le mando la prima stesura così come sta. Dal momento che molte sono le questioni che impegnano quotidianamente la sua attenzione, forse è meglio che riassuma qui brevemente i nostri rapporti col professor Hancock. Fino al 1955 il professore reggeva la cattedra Kelvin di elettrotecnica alla Brandon University, ma in quell'anno gli fu concesso un congedo indefinito perché portasse avanti le sue ricerche. In queste, ebbe come collaboratore il defunto dottor Clayton, un tempo capo-geologo del Ministero dei Combustibili e dell'Energia. La loro ricerca comune era sovvenzionata dal Fondo Paul e dalla Royal Society.

Il professore sperava di riuscire a sviluppare il sonar come strumento di prospezione geologica. Il sonar, come lei saprà, è l'equivalente acustico del radar e, anche se meno familiare, è più antico di alcuni milioni di anni, poiché i pipistrelli se ne servono in maniera assai efficace per individuare, di notte, insetti e ostacoli. Il professor Hankock intendeva trasmettere dentro il sottosuolo degli impulsi supersonici ad alta energia, tracciando, grazie agli echi di ritorno, un'immagine di ciò che si trovava sotto. L'immagine sarebbe comparsa su un tubo catodico, e l'intero sistema sarebbe stato il perfetto analogo del radar usato dagli aerei per «vedere» il terreno sottostante attraverso le nuvole.

Nel 1957 i due scienziati avevano conseguito un parziale successo, ma avevano esaurito i fondi messi a loro disposizione. Agli inizi del 1958 chiesero direttamente al governo una sovvenzione permanente. Il dottor Clayton aveva fatto notare l'immenso valore d'un congegno che avrebbe consentito di effettuare una sorta di fotografia ai raggi X della crosta terrestre, e il Ministero dei Combustibili l'approvò prima di passare a noi la domanda. A quell'epoca il rapporto della Commissione Bernal era stato appena pubblicato e noi eravamo assai desiderosi che i casi meritevoli venissero risolti in fretta, per evitare ulteriori critiche. Subito andai a trovare il professore, e presentai un rapporto favorevole; il primo pagamento della nostra sovvenzione (S/543/68) avvenne pochi giorni più tardi. Da quella volta mi sono tenuto in continuo contatto con la ricerca e ho prestato assistenza, sia pure entro certi limiti, con consigli tecnici.

L'equipaggiamento usato per gli esperimenti è complesso, ma basato su princìpi semplici. Impulsi molto brevi ma assai potenti d'onde supersoniche vengono generati da uno speciale trasmettitore che ruota in continuità in un bagno di liquido organico pesante. Il raggio prodotto passa dentro il suolo sottostante ed esegue un'analisi come un raggio radar, produce echi di ritorno. Grazie a un circuito ritardante assai ingegnoso che ora, resistendo alla tenatazione, non descriverò, possono venir selezionati gli echi provenienti dalle diverse profondità cosicché possono venir riprodotte, sullo schermo d'un tubo catodico, le immagini degli strati esplorati.

Quando incontrai la prima volta il professor Hancock, il suo apparato era piuttosto primitivo, ma fu ugualmente in grado di mostrarmi la distribuzione dei differenti tipi di roccia fino a una profondità di qualche centinaio di metri, e potemmo seguire molto chiaramente il percorso della metropolitana che passava molto vicina al suo laboratorio. Gran parte del successo del professore era dovuta alla grande intensità dei suoi impulsi supersonici, poiché quasi dall'inizio è stato in grado di generare picchi di potenza di parecchie centinaia di kilowatt, la maggior parte dei quali irradiati dentro il suolo. Era rischioso rimanere accanto al trasmettitore, e avevo anche notato che il suolo diventava molto caldo intorno ad esso. Mi aveva molto sorpreso vedere un così grande numero d'uccelli nelle vicinanze; ma scoprii ben presto che erano attirati dalle migliaia di vermi morti che giacevano sul terreno.

All'epoca della morte del dottor Clayton, nel 1960, l'equipaggiamento funzionava con una potenza di più d'un megawatt e si potevano ottenere ottime immagini degli strati rocciosi fino a un miglio di profondità, Il dottor Clayton aveva confrontato i risultati con quelli di tutte le ricerche geologiche conosciute, e aveva dimostrato al di là di ogni dubbio il valore delle informazioni ottenute.

La morte del dottor Clayton in un incidente d'auto fu un'autentica tragedia. Aveva sempre esercitato un'influenza stabilizzatrice sul professore, il quale non era mai stato molto interessato alle applicazioni pratiche del suo lavoro. Non molto tempo dopo notai un chiaro cambiamento nell'atteggiamento del professore, il quale, qualche mese più tardi mi confidò le sue nuove ambizioni. Avevo cercato di convincerlo a pubblicare i suoi risultati (aveva già speso più di cinquantamila sterline e la Commissione Pubblica per la Revisione dei Conti faceva di nuovo difficoltà) ma chiese che gli fosse concesso un altro po' di tempo. Credo che il modo migliore di spiegare il suo atteggiamento sia impiegare le sue stesse parole, che ricordo assai vividamente, poiché le pronunciò con un'enfasi tutta particolare:

«Si è mai chiesto», mi disse, «come sia veramente fatta la Terra all'interno? Abbiamo soltanto scalfito la sua superficie con le nostre miniere e i pozzi petroliferi. Ciò che si trova al di sotto ci è sconosciuto come l'altro lato della Luna.

«Sappiamo che la Terra è innaturalmente densa — assai più densa di quanto starebbero a indicare le rocce e il terreno della crosta. Il nucleo potrebbe essere costituito da metallo solido, ma finora non c'è mai stata la possibilità di verificarlo. Già a dieci miglia di profondità la pressione dev'essere di undici tonnellate o anche di più per centimetro quadrato, e la temperatura di parecchie centinaia di gradi. Il solo tentativo di raffigurarsi di come possa essere il centro della Terra fa vacillare la nostra immaginazione: la pressione, laggiù, dev'essere di migliaia di tonnellate per centimetro quadrato. È strano pensare che fra due o tre anni potremmo aver raggiunto la Luna, ma una volta che saremo arrivati fino alle stelle, non per questo ci saremo avvicinati d'un solo millimetro a quell'inferno a quattromila miglia sotto i nostri piedi.

«Adesso, riesco a ottenere echi riconoscibili da ciò che si trova a due miglia di profondità, ma spero di potenziare il trasmettitore fino a dieci megawatt nel giro di pochi mesi. Con una simile energia, spero che la sua portata possa venir aumentata fino a dieci miglia di profondità. E non intendo fermarmi qui».

Ero colpito, sì, ma nello stesso tempo provavo un po' di scetticismo.

«È tutto molto bello», replicai. «Ma sicuramente, più scenderà in profondità, meno sarà in grado di vedere. La pressione renderà impossibile qualunque cavità, e dopo poche miglia vi sarà soltanto una massa omogenea che diventerà sempre più densa».

«Molto probabile», ammise il professore. «Ma posso ancora imparare molte cose dalle caratteristiche della trasmissione. Ad ogni modo, lo vedremo una volta arrivati a quel punto».

Questo avveniva quattro mesi fa; e ieri ho visto il risultato della ricerca. Quando sono arrivato da lui, era fin troppo ovvia l'eccitazione in cui si trovava il professore, ma Hancock non volle anticiparmi nulla di quanto aveva scoperto, sempre che avesse scoperto qualcosa. Mi mostrò il suo equipaggiamento perfezionato e tirò fuori il nuovo ricevitore dal bagno liquido in cui era immerso. La sensibilità dei rilevatori era stata enormemente aumentata, ed era bastato questo a raddoppiare la portata dell'intero congegno, cui andava aggiunto l'ulteriore aumento dovuto all'accresciuta potenza del trasmettitore. Era strano osservare quella struttura d'acciaio ruotare lentamente e rendersi conto che stava esplorando regioni che, malgrado la loro vicinanza, l'uomo con tutta probabilità non avrebbe mai raggiunto.

Quando entrammo nel piccolo locale che conteneva le apparecchiature visive, il professore era stranamente silenzioso. Accese il trasmettitore e malgrado questo fosse a cento metri di distanza, avvertii lo stesso uno sgradevole pizzicore. Poi il tubo catodico s'illuminò e il pennello elettrico, ruotando lentamente, tracciò l'immagine che avevo visto già tante volte prima di allora. Adesso, tuttavia, la definizione era enormemente migliorata grazie all'aumentata potenza e alla più grande sensibilità dell'apparecchiatura. Regolai il comando di profondità e misi a fuoco la galleria della metropolitana, chiaramente visibile come una corsia scura attraverso lo schermo debolmente luminoso. Mentre stavo guardando, d'un tratto la striscia scura parve riempirsi di nebbia, e seppi che un convoglio stava passando là sotto.

Poco dopo, ripresi la discesa. Malgrado avessi osservato quell'immagine molte volte, era sempre magico vedere quelle grandi masse luminose che parevano salire galleggiando verso di me, sapendo che erano rocce sepolte — forse gli ultimi resti dell'avanzata dei ghiacciai di cinquantamila anni prima. Il dottor Clayton aveva elaborato una mappa, cosicché eravamo in grado d'identificare i diversi strati man mano che li superavamo; poco dopo mi avvidi che avevamo superato lo strato alluvionale per entrare nel grande banco d'argilla che intrappola l'acqua la quale alimenta i pozzi artesiani della città. Ben presto, anche questo banco fu superato, e seppi che mi stavo ormai calando attraverso il letto roccioso fin quasi a un miglio sotto la superficie.

L'immagine era ancora chiara e luminosa, anche se c'era poco da vedere, giacché adesso c'erano pochi cambiamenti nella struttura del sottosuolo. La pressione stava già salendo verso le mille atmosfere, e ben presto sarebbe stato impossibile che una qualunque cavità restasse aperta, poiché la roccia avrebbe cominciato a scorrere plasticamente. Affondai, miglio dopo miglio, ma soltanto una pallida nebbia galleggiava sullo schermo, interrotta qua e là soltanto quando gli echi venivano restituiti da sacche o vene di materiale più denso. Divennero sempre meno numerosi man mano la profondità aumentava... a meno che gli stessi echi non fossero resi sempre più esigui dalla distanza, al punto da non poter essere più rilevati.

Perché, le reali dimensioni dell'immagine erano in continuo aumento. Adesso, da un'estremità all'altra dello schermo, la prospettiva copriva parecchie miglia, ed io mi sentii come un aviatore che stesse guardando da enorme altezza un ininterrotto banco di nuvole, laggiù in basso. Per un attimo, fui colto da una sensazione di vertigine quando pensai all'abisso dentro il quale stavo guardando. Non credo che d'ora in poi il mondo mi parrà mai più del solito.

A una profondità di circa dieci miglia mi fermai e guardai il professore. Da un po' di tempo non c'era nessun cambiamento, nell'immagine sullo schermo, ed io sapevo che adesso la roccia doveva esser compressa in una massa omogenea e anonima. Feci un rapido calcolo mentale ed ebbi un brivido quando mi resi conto che la pressione doveva essere, adesso, di almeno undici tonnellate per centimetro quadrato. Ora l'analizzatore ruotava assai lentamente, poiché i deboli echi impiegavano parecchi secondi a risalire dalle profondità.

«Bene, professore», dichiarai. «Mi congratulo con lei. È uno splendido successo. Ma adesso pare che abbiamo raggiunto il nucleo. Suppongo che non ci saranno più cambiamenti da qui al centro».

Ebbe un sorriso forzato. «Prosegua», mi disse. «Non ha ancora finito».

C'era qualcosa nella sua voce che mi lasciò perplessso e mi allarmò. Lo guardai fisso per un momento, i suoi lineamenti erano appena visibili al luccichio verde-azzurrastro del tubo catodico.

«Fino a dove può scendere questo apparato?» domandai, mentre l'interminabile discesa ricominciava.

«Quindici miglia», disse in tono deciso. Mi chiesi come facesse a saperlo, dal momento che l'ultima configurazione che ero riuscito a vedere con chiarezza si era trovata a sole otto miglia di profondità. Ma continuai la lunga caduta attraverso la roccia, mentre l'analizzatore girava sempre più lentamente, fino a quando non impiegò quasi cinque minuti a fare una completa rivoluzione. Potevo sentire dietro di me il respiro affannoso del professore, e a un certo punto lo schienale della mia sedia perfino crepitò, sotto la stretta spasmodica delle sue dita...

Poi, d'un tratto, delle tracce assai deboli cominciarono ad apparire sullo schermo. Mi porsi in avanti, avidamente, chiedendomi se quello non fosse il primo accenno del nucleo ferroso della Terra. Con esasperante lentezza l'analizzatore ruotò di un angolo retto, poi di un altro. E poi...

All'improvviso balzai fuori dalla sedia e gridai: «Mio Dio!» e mi girai verso il professore. Soltanto un'altra volta nella mia vita avevo subìto un simile trauma mentale — quindici anni prima, quando avevo per caso acceso la radio e avevo udito la notizia del lancio della prima bomba atomica. Se quella era stata inaspettata, questo era inconcepibile, poiché sullo schermo era comparsa una sorta di griglia formata da linee sottili che s'incrociavano dovunque con estrema regolarità.

So che non spiccai parola per parecchi minuti, giacché l'analizzatore riuscì a compiere un giro completo mentre me ne stavo lì immobile, paralizzato dalla sorpresa. Poi il professore mi parlò, con voce gentile e innaturalmente calma.

«Volevo che lei lo vedesse con i suoi occhi prima che le dicessi qualcosa. Quell'immagine, in questo momento, ha un'estensione di trenta miglia, e ognuno di quei quadrati ha un lato di due o tre miglia. Osserverà che le linee verticali tendono a convergere e quelle orizzontali sono leggermente incurvate. Stiamo guardando una parte d'una enorme struttura ad anelli concentrici. Il centro deve trovarsi molte miglia a nord, probabilmente sulla verticale della regione di Cambridge. Possiamo soltanto immaginare fino a dove si estende nell'altra direzione».

«Ma cos'è, per l'amor del cielo?»

«Be'... chiaramente si tratta di qualcosa di artificiale».

«È ridicolo! A quindici miglia di profondità!»

Il professore mi indicò lo schermo: «Dio sa se non ho fatto del mio meglio», dichiarò, «ma non riesco a convincermi che la natura abbia potuto fare qualcosa di simile!»

Cosa avrei potuto rispondergli? Niente. Per cui, poco dopo proseguì: «L'ho trovato tre giorni fa, mentre tentavo di scoprire la massima portata dell'apparecchiatura. Potrei scendere a una profondità ancora maggiore, ma penso che quella struttura, lì nello schermo, sia così densa da non consentire agli impulsi irradiati dal mio dispositivo di propagarsi più oltre.

«Ho elaborato una dozzina di teorie, ma alla fine ho dovuto sempre ritornare alla prima. Noi sappiamo che la pressione, là sotto, dev'essere di otto o novemila atmosfere, e che la temperatura dev'essere alta al punto da fondere le rocce. Ma la materia normale e tuttavia quasi tutta fatta di spazio vuoto. Supponga che là sotto ci sia una forma di vita — non vita organica, naturalmente, ma vita basata su materia supercondensata — in cui i gusci elettronici degli atomi sono ridotti a pochi o mancano del tutto. Capisce cosa voglio dire? Per creature del genere perfino la roccia a quindici miglia di profondità non offrirebbe una resistenza maggiore di quella dell'acqua — e noi e tutto il nostro mondo saremmo, al confronto, tenui come fantasmi».

«Allora, quella struttura che noi vediamo nello schermo...»

«È una città, o il suo equivalente. Ha visto le sue dimensioni, così può giudicare lei stesso la civiltà che deve averla costruita. Tutto il mondo che noi conosciamo — i nostri oceani, i continenti e le montagne — non sono altro che una pellicola di nebbia la quale avvolge qualcosa al di là della nostra comprensione».

Nessuno dei due disse più niente per un po'. Ricordo di aver provato un vivo sbigottimento, per essere stato uno dei primi uomini al mondo ad apprendere la spaventevole verità... giacché per qualche motivo non avevo mai dubitato che fosse la verità. E mi chiesi come avrebbe reagito il resto dell'umanità quando vi fosse stata la rivelazione.

Dopo un po', spezzai il silenzio. «Se lei ha ragione», dissi «perché mai, chiunque essi siano, non hanno mai realizzato nessun contatto con noi?»

Il professore mi fissò, lo sguardo compassionevole. «Noi siamo convinti di essere dei buoni tecnici», replicò, «ma come potremmo raggiungerli? Inoltre, non sono affatto sicuro che non vi siano stati contatti. Pensi a tutte le creature del sottosuolo che popolano le nostre mitologie... i troll, i coboldi e tutto il resto. No, è del tutto impossibile e ritiro quanto ho detto. Comunque, è un'idea molto suggestiva».

Durante tutto quel tempo, il disegno sullo schermo non era cambiato: quel vago reticolato continuava ad ardere, sfidando il nostro equilibrio mentale. Cercai d'immaginare strade ed edifici e creature che camminavano tra essi, creature che potevano muoversi attraverso la roccia incandescente come un pesce nuota nell'acqua. Era fantastico... e poi ricordai la gamma incredibilmente ristretta entro la quale esiste la razza umana. Noi, non loro, eravamo gli anormali, siccome quasi tutta la materia dell'universo ha temperatura di migliaia, o di addirittura di milioni di gradi.

«Be'», dissi poco convinto, «che cosa facciamo adesso?»

Il professore si sporse in avanti, impetuosamente: «Prima dobbiamo apprendere assai di più, e dobbiamo mantenere la cosa assolutamente segreta fino a quando non saremo ben sicuri dei fatti. Lei s'immagina il panico che scoppierebbe se trapelasse un'informazione del genere? Naturalmente, presto o tardi, il diffondersi della verità sarà inevitabile, ma potremmo essere in grado di rivelarla a poco a poco.

«Lei si renderà conto che, adesso, quell'aspetto del mio lavoro relativo alla prospezione geologica non ha più nessuna importanza. La prima cosa che dobbiamo fare è la realizzazione d'una catena di stazioni per scoprire quanto è effettivamente estesa la struttura. Mi immagino quelle stazioni poste a intervalli di dieci miglia verso il nord, ma vorrei averne una, prima di tutto, nel sud di Londra per appurare quanto si estende questa cosa. Tutta la faccenda dovrà restare scrupolosamente segreta, come lo fu la realizzazione della prima catena di radar negli anni Trenta.

«Allo stesso tempo, aumenterò di nuovo la potenza del mio trasmettitore d'implusi. Spero di riuscire a lanciare l'emissione in un raggio assai più ristretto, aumentando così enormemente la concentrazione d'energia. Ma questo comporterà ogni genere di difficoltà costruttive, per cui avrò bisogno d'una maggiore assistenza».

Gli promisi che avrei fatto tutto il possibile per procurargli altri aiuti, e il professore spera che lei possa visitare di persona il suo laboratorio. Intanto, le allego una fotografia dello schermo la quale, anche se non è chiara come l'immagine originale, spero le dimostri al di là di ogni dubbio che le nostre osservazioni non sono sbagliate.

Sono ben consapevole che la nostra ultima sovvenzione alla Società Interplanetaria ci ha portati assai vicino al limite massimo di quanto ci è possibile spendere, oggi, è meno importante d'una immediata indagine di questa scoperta, che potrebbe avere profondi effetti sulla filosofia e sul futuro dell'intera razza umana.

 

Mi lasciai andare contro lo schienale, e fissai Karn. C'era molto, in quel documento, che non avevo capito, ma lo schema generale era abbastanza chiaro.

«Sì», esclamai, «è questo! Ma dov'è quella fotografia?»

Me la porse. La qualità era scadente, poiché era stata riprodotta più volte prima di arrivare a noi, ma il disegno era inequivocabile e lo riconobbi subito.

«Erano degli eccellenti scienziati», riconobbi in tono ammirato. «È proprio Calastheon. Così, abbiamo finalmente scoperto la verità, anche se abbiamo impiegato trecento anni per riuscirci».

«E le pare sorprendente», chiese Karn, «se considera la montagna di roba che abbiamo dovuto tradurre, e le difficoltà di copiare prima che evaporasse?»

Rimasi seduto in silenzio per un po', ripensando alla strana razza di cui stavamo esaminando le reliquie. Soltanto una volta — e mai più! — ero risalito lungo il grande sfiatatoio che i nostri tecnici avevano aperto fin dentro il Mondo d'Ombra. Era stata un'esperienza spaventevole... e indimenticabile. Gli strati multipli della mia tuta a pressione avevano reso ogni movimento assai difficoltoso, e malgrado tutto il mio isolamento avevo ugualmente percepito l'incredibile freddo che si stendeva tutt'intorno a me.

«È stato davvero un peccato», riflettei ad alta voce, «che la nostra emersione li abbia distrutti in modo così completo. Erano una razza intelligente, e avremmo potuto imparare parecchio da loro».

«Non penso proprio che noi si possa venire incolpati di alcunché», ribatté Karn. «Non avevamo mai davvero creduto che qualcosa potesse effettivamente esistere in quelle orribili condizioni di quasi-vuoto, e di una temperatura così vicina allo zero assoluto. Non potevamo farci niente».

Non ero affatto d'accordo. «Credo che questo dimostri che erano proprio loro la razza più intelligente. Dopotutto, sono stati loro a scoprirci per primi. Tutti avevano riso di mio nonno, quando aveva dichiarato che quelle radiazioni da lui individuate e che provenivano dal Mondo d'Ombra dovevano essere artificiali».

Karn passò uno dei suoi tentacoli sul manoscritto.

«Adesso abbiamo scoperto con certezza la causa di quelle radiazioni», dichiarò. «Osservi la data: proprio un anno prima della scoperta di suo nonno. Il professore deve aver ricevuto davvero la sua sovvenzione!» Rise in modo sgradevole. «Deve aver provato un bello shock quando ci ha visti salire alla superficie proprio sotto di lui!»

Udii appena le sue parole siccome una sensazione di estremo disagio mi aveva colto d'un tratto. Pensavo alle migliaia di miglia di roccia che giacevano sotto la grande città di Calastheon, le quali diventavano sempre più calde e più dense giù, giù fino al nucleo sconosciuto della Terra. E così mi rivolsi a Karn:

«Non è molto divertente», gli dissi con calma, «la prossima volta potrebbe toccare a noi».

 

Ora Zero

Zero Hour

di Ray Bradbury

Thrilling Wonder Stories, autunno

 

Ray Bradbury non ha certo bisogno di presentazioni, ma per la cronaca, è l'autore di pietre miliari della fantascienza quali The Martian Chronicles (1950), The Illustrated Man (1951) e la classica utopia negativa del romanzo Fahrenheit 451 (1953); ha vinto molti premi, compresi due premi O. Henry (1947 e 1948), il premio Benjamin Franklin (1954), un premio Boy's Club of America Junior Book (1956) e il premio Gandalf (1980); ed è uno degli scrittori americani più conosciuti. È interessante osservare che, durante tutta la sua lunga carriera, non ha mai vinto un Hugo o un Nebula.

«Ora Zero» è una delle sue storie migliori, una storia d'invasione che fonde tutti gli elementi che l'hanno reso tanto popolare, compreso un giovanissimo personaggio in un ruolo da protagonista. Inoltre la storia è una delle sue preferite, tant'è vero che la scelse per l'antologia My Best Science Fiction Story, curata da Leo Margulies (1949).

 

(Dal momento che Marty ha citato quell'antologia di Margulies, My Best Science Fiction Story, voglio cogliere l'occasione per esternare una lagnanza. Mi fu chiesto di scegliere una delle mie storie per quella stessa antologia, e di presentare un motivo ben preciso per la mia scelta, e l'antologia stessa avrebbe dovuto intitolarsi «Author's Choice», o qualcosa di simile. Tuttavia, il requisito principale era che la storia non dovesse essere stata pubblicata su Astounding Science Fiction.

Questo era uno sfortunato requisito, poiché la maggior parte delle mie storie era apparsa, per l'appunto, su Astounding. Le poche cose mie che non erano apparse in quelle pagine erano di qualità inferiore. [È una misura di quanto Astounding dominasse il campo degli anni Quaranta, il fatto che la grande maggioranza delle storie contenute in questa serie di antologie, finora, provengano da quella rivista].

Quelli erano, comunque, i miei primi tempi, ed io ero desideroso che le mie storie comparissero nelle antologie, così, scelsi uno di quei racconti di non eccelsa qualità, e fornii la ragione della scelta. Quando l'antologìa comparve, scoprii che il suo titolo era stato cambiato, senza preavviso, in My Best Science Fiction Story (cioè, La Mia Miglior Storia di Fantascienza).

Questo andava benissimo per Bradbury, uno dei maggiori talenti del nostro campo che non scriveva per Astounding. «Ora Zero» è la giusta vetrina per le sue capacità e, per quell'epoca, una ragionevole scelta per il suo «Best». Tuttavia, per quanto riguarda il sottoscritto, ho sempre avuto l'impressione di essere stato indotto con l'inganno ad autodiffamarmi. - I.A.)

 

Oh, sarebbe stata una cosa tanto deliziosa! Che bel gioco! Erano anni che non conoscevo tanta eccitazione. I bambini si catapultavano qua e là attraverso i prati verdi, gridando fra loro, tenendosi per mano, facendo il girotondo, arrampicandosi sugli alberi, ridendo di continuo.

Sopra le loro teste volavano i razzi e le automobili correvano borbottando per le strade, ma i bambini continuavano a giocare. Un tale divertimento, una tale gioia fremente, tanti ruzzoloni e grida di schietta gioia.

Mink corse in casa, tutta sporca e sudata. A sette anni aveva una gran voce, un corpo robusto e un'aria decisa. Sua madre, la signora Morris, la vide mentre rovistava nei cassetti, sbattendo pentole e arnesi vari in una grande borsa.

«Per l'amor del cielo, Mink, cosa sta succedendo?»

«Il gioco più eccitante che abbiamo mai fatto!» esclamò Mink, ansante e tutta rossa in viso.

«Fermati e riprendi fiato», disse sua madre.

«No, sto bene», ansimò Mink. «Va bene se prendo queste cose, mamma!»

«Ma non ammaccarle», disse la signora Morris.

«Grazie, grazie!» gridò Mink e, bum!, era già partita come un razzo. La signora Morris scrutò la sua piccoletta in fuga. «Come si chiama il gioco?» gli gridò dietro.

«Invasione!» rispose Mink. La porta sbatté dietro di lei.

In ogni cortile della strada, i bambini portarono fuori coltelli e forchette, attizzatoi, vecchi tubi di stufa e apriscatole.

Era un fatto interessante che tutta quell'attività frenetica avesse coinvolto soltanto i bambini più piccoli. Quelli più anziani, dai dieci anni in su, disdegnavano l'intera faccenda e si allontanavano sprezzanti per fare una gita, oppure giocavano una propria versione più dignitosa del nascondino.

Nel frattempo, i genitori andavano e venivano nelle loro graziose automobili scintillanti di cromature. Gli addetti alle riparazioni arrivavano ad aggiustare gli ascensori pneumatici nelle case, per sistemare i televisori sbiancati dalla «neve», oppure per martellare le cocciute condutture pneumatiche che si ostinavano a restare ostruite invece di consegnare viveri e posta.

La civiltà degli adulti passava e ripassava accanto agli impegnatissimi bambinetti, gelosa dell'inesauribile energia di tutti quei pargoletti scatenati, divertita, ma non troppo, di questo loro vigoroso rigoglio, desiderosa, dentro di sé, di unirsi anch'essa ai loro giochi.

«Questo e questo e questo», disse Mink, dando istruzioni a tutti gli altri armati d'un grande assortimento di cucchiai e di chiavi inglesi. «Fate questo, e mettete quello lì. No! , ho detto, stupido! Bene. Adesso tiratevi indietro mentre sistemo questo». Con la lingua stretta tra i denti, il volto corrugato per la concentrazione. «Così. Visto?»

«Sìiiii!» urlarono i bambini.

Joseph Connors, di dodici anni, corse fin da lei.

«Vai via», gli disse Mink in tono deciso.

«Voglio giocare», disse Joseph.

«Non puoi!» ribatté Mink.

«Perché no?»

«Ci prenderesti in giro e basta».

«Credimi, non lo farò».

«No. Ti conosciamo. Vai via o ti prendiamo a calci.».

Un altro ragazzo di dodici anni arrivò con i suoi ronzanti pattini a motore. «Ehi, Joe! Vieni via! Lascia che giochino come vogliono, quelle femminucce!»

Joseph mostrò una buona dose di riluttanza e anche di nostalgia. «Ma io voglio giocare», dichiarò.

«Sei vecchio», replicò Mink, asciutta.

«Non così vecchio», insisté Joseph, sforzandosi di ragionare.

«Finiresti soltanto per ridere e guastare l'invasione».

Il ragazzo sui pattini a rotelle, produsse un rumore assai irriguardoso con le labbra. «Vieni, Joe! Loro e le loro favole! Tutte sciocchezze!»

Joseph si allontanò con riluttanza. Continuò a guardarsi indietro per tutta la lunghezza dell'isolato.

Mink era di nuovo tutta indaffarata. Con tutto l'armamentario raccolto costruì una specie di apparecchio. Aveva affidato a un'altra bambina munita di taccuino il compito di prendere appunti con lenti e sofferti scarabocchi. Le loro voci si alzavano e si abbassavano alla calda luce del sole.

Tutt'intorno a loro la città mormorava. Le strade erano bordate di belle siepi verdi e pacifici alberi. Soltanto il vento destava turbinii attraverso la città, attraverso il paese, attraverso il continente. In mille altre città c'erano alberi e bambini e viali, uomini d'affari nei loro tranquilli uffici che registravano la propria voce, o guardavano la televisione. I razzi s'innalzavano come aghi da rammendo nel cielo azzurro. Dovunque c'era un'aria distesa, quella tranquilla e universale presunzione degli uomini abituati alla pace, del tutto sicuri che non ci sarebbero stati guai. Mano nella mano gli uomini, ovunque sulla Terra, costituivano un fronte unito. Le armi più perfezionate venivano condivise ugualmente da tutte le nazioni. Era stata creata una situazione di equilibrio incredibilmente bella e profittevole. Non c'erano traditori fra gli uomini, nessuno era infelice o anche soltanto scontento; perciò il mondo si reggeva su un terreno solido. La luce del sole illuminava metà del mondo e gli alberi sonnecchiavano in una marea d'aria calda.

La madre di Mink guardò giù dalla finestra del piano di sopra. Quei bambini. Li fissò e scosse la testa. Be' avrebbero mangiato a sazietà, avrebbero dormito bene, e lunedì sarebbero tornati a scuola. Benedetti i loro piccoli corpi vigorosi! Si mise ad ascoltare.

Mink stava parlando con grande calore a qualcuno vicino al cespuglio di rose... anche se lì non c'era nessuno.

Quegli strani bambini. E quella bambina... qual era il suo nome? Anna? Anna stava prendendo appunti su un blocco di carta. Prima Mink faceva una domanda al cespuglio di rose, poi gridava la risposta di Anna.

«Triangolo», disse Mink.

«Cos'è un tri...» chiese Anna, in difficoltà, «... angolo!»

«Non importa», disse Mink.

«Come si scrive?» chiese Anna.

«T-r-i...» compitò Mink, lentamente, poi sbottò: «Oh, arrangiati!» E proseguì con altre parole. «Raggio», disse.

«Non ho ancora scritto tri...» disse Anna, «... angolo!»

«Be', spicciati, spicciati!» gridò Mink.

La madre di Mink si sporse dalla finestra del piano di sopra. «A-n-g-o-l-o», compitò per Anna.

«Oh, grazie, signora Morris», fece Anna.

«Ma sì», rispose la madre di Mink, e si ritirò, ridendo, per spolverare il corridoio con un elettroaspiratore magnetico.

Le voci andavano e venivano nell'aria tremolante. «Raggio», ripeté Mink. Le voci si accavallarono.

«Quattro-nove-sette-A-e-B-e-X» snocciolò Mink, laggiù in distanza, con estrema serietà. «E una forchetta e un laccio e un es... es... esagono!»

All'ora di pranzo Mink ingollò il latte in un sol sorso e si precipitò alla porta. Sua madre batté la mano sul tavolo.

«Torna subito a sederti!» le intimò la signora Morris. «Fra un minuto arriva la minestra calda». Schiacciò un pulsante rosso sul cuoco-maggiordomo, e dieci secondi più tardi qualcosa cadde giù con un molle tonfo sul ricevitore di gomma. La signora Morris l'aprì, tirò fuori una scatoletta con un paio di pinze d'alluminio, la dissigillò con un rapido gesto, e versò la zuppa bollente in un piatto fondo.

Durante tutto questo tempo, Mink continuò a mostrare segni d'un crescente nervosismo. «Fai presto, mamma! È una faccenda di vita o di morte! Non...»

«Alla tua età, era la stessa cosa anche per me. Sempre vita o morte. Lo so».

Mink buttò giù la minestra in un lampo.

«Fai piano», le raccomandò la mamma.

«Non posso», disse Mink. «Drill mi sta aspettando».

«Chi è Drill? Che nome strano», commentò la mamma.

«Tu non lo conosci», ribatté Mink.

«Un nuovo bambino del vicinato?» chiese la mamma.

«Sì, è nuovo davvero», annui Mink. Attaccò la sua seconda scodella.

«Qual è Drill?» chiese la mamma.

«È qui intorno», disse Mink, in modo evasivo. «Tu ci prenderesti in giro. Tutti ci prendono in giro, dannazione».

«Drill è forse timido?»

«Sì. No. In un certo senso. Gesù, mamma, devo correre, se vogliamo avere l'invasione!»

«Chi invade cosa?»

«I marziani invadono la Terra. Oh, non esattamente i marziani. Vengono... non lo so. Da lassù». Indicò col cucchiaio.

«E da dentro», replicò la mamma, toccando la fronte febbricitante di Mink. Ma Mink si ribellò: «Tu stai ridendo! Ucciderai Drill e tutti gli altri!»